martedì 28 aprile 2009

Ricordi fiorentini


La prima volta che andai a Firenze non avevo ancora sette anni e ricordo che volevo andar via dal ristorante perché se avevano dimenticato di mettere il sale nel pane sicuramente avremmo mangiato male. Papà mi rassicurò precisando che il pane era sciapo perché il prosciutto era bello e salato. Mi spiegò anche che ai tempi di Paolo III c’era stata la guerra del sale. Col tempo mi abituai a mangiare il pane sciapo quando si era in Umbria o a Colle Val d’Elsa. Quando iniziai a viaggiare da sola lo mangiavo anche tostato dal nostro amico Mario che abitava in un attico di Via Bellariva . Lo gustavo perché era proprio lui ad abbrustolirlo su una graticola cinese. E poi c’era sempre la ribollita della Maria. Col passare degli anni il pane sciapo, Mario e la ribollita sarebbero divenuti una sola cosa. Poi c’era tanto silenzio in quel terrazzo pieno di piante “trascurate” che ad ogni mia visita rinvigorivano.
Mi piaceva molto andare a Firenze e trascorrevo molto tempo in Via Bellariva. Attraverso le parole dell’amico mi nutrivo di poesia e quei personaggi che a lungo erano esistiti nella lettura ritornavano in vita e prendendomi in braccio mi cullavano: la seconda generazione dell’Ermetismo, Campana, Rebora, Gatto, Montale, Quasimodo, Traverso. Mi immaginavo di origliare le conversazioni tra Dino e Sibilla mentre passeggiavano, partecipavo alla Messa celebrata da Carlo Betocchi e osservavo, non vista, il burbero e inquieto Montale seduto dietro una scrivania del Visseux con una sigaretta in mano. Sommerso di libri, nel riverbero della fioca luce appariva intento a tratteggiare su un foglietto la sua volpe, circondato da cocci di bottiglie. Mi trovavo negli anni trenta al Caffè San Marco quando Leone leggeva le sue traduzioni dal Tedesco e Oreste quelle dallo Spagnolo durante le loro cene di universitari squattrinati. E c’erano i Macchiaioli. Ed ero là quando in incognito spuntò Lenin ed il cameriere avvisò il gruppo. Rivivevo le concitate fasi della pubblicazione di “Americana”, che avrei avuto tra le mani e che avrei sfogliato con una bruciante passione nella biblioteca di uno dei più prestigiosi atenei americani dopo qualche anno.
Partivo sempre dalla Sicilia col treno delle 19.30. Un espresso in cui il vagone letto era sempre solo per me, così potevo dormire tranquilla. S’arrivava a Firenze alle 5.30 e dalla stazione andavo a piedi dalle suore “francesi” attraversando Ponte Santa Trinita. Il cielo cambiava colore così rapidamente tanto da avvolgermi col suo incanto e mi trasportava indietro nel tempo per farmi rivivere i fasti della corte de’ Medici. Nel mio trolley c’era sempre un taccuino e così potevo annotare pensieri, emozioni e fantasie. Man mano che la luce del giorno si faceva più chiara la città prendeva vita e i furgoni consegnavano i giornali, l’odore dell’Arno si impregnava di pane appena sfornato e gioivo nel vedere trote e pernici.
Alle sette, puntale, suonavo il campanello delle suore. S’apriva il lato piccolo del portone e prendevo possesso della mia dimora. Era una stanza molto grande con bagno accanto e un vecchio tavolino dove potevo comodamente scrivere. Gli arredi erano semplici e spaiati, anche se sempre tenuti in ordine. La stanza semibuia, non arrivando mai raggi di sole era accogliente e per nulla fredda. Aveva un certo fascino con la grande finestra a grate per sembrando da fuori la cella di un carcere. Il vecchio lavandino di pietra non era scomodo. La cosa più bella di quel luogo era il meraviglioso giardino dove il profumo di rose unito alle preghiere saliva in cielo con speciale rapidità. Le suore erano particolari. Facevano le infermiere e parlavano un francese sgangherato ma erano sempre molto affettuose con me. Mi davano ospitalità per qualche giorno o per qualche settimana, e non posso dimenticare la loro generosità di quando andai per prendermi cura del vecchio amico appena uscito dall’ospedale e convalescente. Ero senza lavoro e avevo affrontato un lungo viaggio!
Verso la fine degli anni ottanta erano trendy i mocassini di camoscio beige o neri, stile casual che completavano l’abbigliamento tipico di molti inglesi e americani. Un pomeriggio di settembre, e faceva caldo pensai di andare a passeggiare in giardino. Una delle suore stava seduta su un telo sommersa da una montagna di centinaia e centinaia di scarpe da appaiare. Erano state donate da una fabbrica per i poveri. Mi chiese di aiutarla. In mezzo a quella montagna di scarpe d’ogni tipo, quante risate nel vederla provarsi scarpine di tela con tacco di corda, 35-36 a pianta stretta. Lei che aveva una pianta larga e tante cipolle e che da sempre portava scarpe basse! E magari in quel momento sognava come sarebbe stata bella ad un ballo di cinquanta o sessanta anni addietro. Mi divertii tanto nell’aiutarla e poi portai a casa tre paia di mocassini! Non erano le Clarks originali ma erano molto comode per chi come me ha imparato l’importanza della praticità.
Ogni volta che partivo portavo sempre dei dolci e qualche bottiglia di vino alle suore il cui indirizzo mi era stato dato negli anni settanta da una mia amichetta d’infanzia che era venuta a trovarmi dall’Australia e che aveva girato l’Italia spendendo poco e divertendosi tanto. Una volta la superiora non c’era e così quando ritornai dopo qualche settimana le suore non avevano ancora assaggiato la pignolata. Era ancora squisita quando la mangiarono! A Mario portavo invece i ‘zuddi o i sesamini che amava intingere in un sorso di vin santo e le arance quando era la stagione dei tarocchi. Una volta gli portai una meravigliosa cravatta di seta blu. L’avevo fatta ad uncinetto, come le faceva una suora di Ferrara. Ne feci tantissime ma quelle blu per papà e per Mario erano davvero speciali. La seta era di straforo. Me l’aveva procurata un’altra suora in cambio di mezzo chilo di seta grigia, poiché quella blu l’aveva acquistata tutta Suor Celeste per le cravatte da donare ai medici che l’avevano curata.
Quando andavo dal Maestro era sempre festa ed avrei voluto che il tempo si fermasse. A cena mi portava sempre in pizzeria perché non lo faceva mai papà. Un posto modesto nei pressi di casa ma a Ganzirri quando stava giù. Lo aiutavo nelle piccole cose di ogni giorno, passavo anche ore ad osservarlo seduta sulla poltrona di vimini, dove soleva sedere lui. Gli facevo da assistente- cambiando solo i fogli nella macchina per scrivere evitando di leggere i versi del foglio appena tolto per non violare la sua intimità creativa. “Sistemava” i suoi componimenti preso dalla frenesia di scrivere a macchina, una magnifica e preziosa Olivetti con cui ha scritto tutto tranne i primi due volumi di versi e ciò che altri avrebbero scritto poi al computer. Copiava a macchina prendendo pezzi scritti in agende diverse ma seguendo uno schema già fissato su fogli di carta a righe di una banca toscana. Ricopiava da quaderni con la copertina si seta cinese color turchese, ma anche da una bella agenda di pelle con le sue iniziali, regalo del Flori, o da fogliettini con Snoopy che gli dava Bilenchi. Se squillava il telefono, ed erano amici o scocciatori, dicevo che il Maestro aveva gente, così poteva sistemare i suoi versi. Scorrevano le due dita sulla tastiera. Il suo volto si trasformava e c’era un qualcosa di magico, una meravigliosa intimità che univa il foglio bianco, i quadretti manoscritti, lui e la macchina per scrivere. In quei momenti era un direttore d’orchestra che con la sua bacchetta dirigeva magistralmente i fonemi e la musica di un mondo in ansia di nascere.
Una sera di fine estate uscii con lui per una passeggiata ma avendo freddo presi in prestito il suo cardigan blu. Appena me lo vide indosso disse che avrei potuto tenerlo ed io scherzando replicai che dopo il cappotto di Montale di Elio Fiore poteva anche starci bene qualcosa sul suo cardigan. Quello beige, che lui teneva quando stava seduto nel suo studio era di bell’effetto quando facevano delle riprese televisive. Sembrava di cachemire attraverso lo schermo e sempre nuovo.
Mi sarebbe piaciuto vivere e lavorare in Toscana, e l’umile stanzetta delle suorine sarebbe potuta diventare il mio regno. Sognavo di arredarla con le mie cose. Immaginavo di riempirla di scaffali coi miei libri, le mie Parker, i miei pennini, le mie conchiglie. Quante conchiglie a casa mia ma nessuna grande come quella che Mario teneva all’entrata del suo attico. Sarei potuta andare in biblioteca e leggere i vecchi numeri del Frontespizio. Facilmente sarei potuta andare in autobus da Romano e Maria Bilenchi che mi stavano cosi simpatici. Avrei potuto trascorrere qualche pomeriggio a settimana dalla zio Oreste, come mi piaceva chiamare il critico Macrì, anche se non era fratello di nonno Angelo .
Quando finalmente ebbi il fax col numero di protocollo del posto che sarebbe stato mio all’Università di Siena mi sembrò di toccare il cielo a piene mani. Avrei potuto sistemare le cose di Mario nel mio tempo libero. E per sempre avrei potuto ascoltare i miei vecchi fiorentini che avevo conosciuto grazie al mio Maestro. Volevo sempre che mi raccontassero qualcosa della loro gioventù. Me li vedevo ventenni, Mario e Piero che andavano dietro alle ragazze fiorentine all’uscita della Facoltà di Lettere. Attraverso i loro ricordi li vedevo in aperta campagna con solo un foglio di carta. Mario scrive la poesia dedicata alle ragazze fiorentine. Sul retro ne scrive una Piero.
Passeggiando per le vie della fiabesca e rinascimentale Pienza, in occasione del matrimonio dei miei cugini Franco ed Elide, in Via dell’Amore sono felice di vedere una donnola e di respirare la stessa aria che Mario respira d’estate quando trascorre il suo periodo di riposo e passa i pomeriggi a chiacchierare con l’amico prete. Pienza, città di Papa Piccolomini, città dell’Amore grazie a Zeffirelli! Un pomeriggio d’Agosto in cui ci vado a trovare Mario c’è anche Don Ferdinando e posso così trattenere in una foto stupenda il sorriso di entrambi per conservare in un album di fotografie il profumo dell’amicizia. Un’amicizia che si consolida negli anni e che va oltre la vita terrena nel “viaggio di Simone Martini”.
Per i 75 anni dell’amico volevo pubblicare una raccolta di saggi critici e così chiesi a Mario di farmi i nomi delle persone a cui teneva in modo particolare. Si prevedeva un numero speciale della rivista Prometeo. Quando giunsero i soldi venne pubblicata un’altra cosa e così tengo ancora una scatola con tutto il materiale raccolto, che odora non di vecchio ma di sopraffazione. Il Rhegium Juli mi aveva chiesto di preparare una plaquette e cosi chiesi a Piero quel foglio di carta che da anni gelosamente conservava. Ci incontrammo in un bar all’uscita di una mostra inaugurata da Spadolini. Piero era con la moglie ed un suo ex alunno, un certo Vittorio. Pensando che si trattasse dell’alunno cui era stato dato quel foglio per una tesi, chiesi se anche lui scrivesse poesie. Il giovane passandosi la mano tra i capelli rispose con distacco di interessarsi d’ arte. Vivendo negli Stati Uniti come potevo conoscere un tipo che passava le serate al Maurizio Costanzo Show? Sono stata l’unica intellettuale- a detta di Piero- a trattare con indifferenza un tale personaggio! L’Arte per me era quella dei grandi pittori che avevo studiato ed amato e non mi interessavano i critici come Zeri per me sempre molto ingombranti. Loro avevano stroncato il mio amato Vincent Van Gogh durante la sua esistenza!
L’ultima volta che andai a Firenze, rimasi solo una giornata. Lasciai il mio trolley alle Giubbe Rosse, dove pranzai e cenai. La città non era più la stessa. Mario non c’era più da qualche mese. Chissà cosa ne aveva fatto Gianni della casa del padre? Telefonai ad un’amica che m’invitò per un tè nel primo pomeriggio. Il suo racconto mi procurò un vuoto allo stomaco. Mario negli ultimi tempi era stato sulla bocca di tutti in città per quelle sue nuove quanto strane amicizie. I giornali erano anche stati poco benevoli con il novantenne senatore e gli vennero attribuite frasi ed atteggiamenti che di certo non appartenevano a lui. Sentire che prima del funerale, mentre la città gli rendeva omaggio, qualcuno fosse entrato in casa a violare la sua intimità e il dolore di quanti gli vollero veramente bene, fu per me una pugnalata . Quante volte Mario mi aveva detto di portarmi a casa libri, quadri e scritti! Non avevo osato che chiedergli di darmi il suo discorso manoscritto tenuto all’Università di Siena. Un discorso scritto su minuti foglietti quadrati. Non mi ero portata neanche l’enorme conchiglia impolverata dell’entrata.
Gironzolai per la città col cuore a pezzi e lacrime pesanti scendevano pregne di dolore. Proprio sotto quella targa che ricorda l’incontro di Dante e Beatrice, una cinesina intrecciava palme trasformandole in animaletti. Comprai una tartaruga per due euro. Il dolore era immenso e lacerante. Entrai nella bottega di ceramica di un artista, i cui lavori erano dominati da uccellini. Comprai due o tre paia di sandali cosi di tanto in tanto potevo sedermi a riposare. Avrei rivisto Maria Bilenchi ma aveva la febbre e mi disse di andarla a trovare un’altra volta come se abitassi nelle vicinanze. Sandro Parronchi stava già male e così quella calda giornata di primavera fu per me terribile. Era come se Mario fosse morto di nuovo e sentivo quel freddo gelido pungente che ad Amherst fa venire il torcicollo e la voglia di rannicchiarsi sotto le coperte.
Camminai senza meta, per far passare le ore fino alla partenza. E risuonavano le ultime frasi che Mario ed io ci scambiammo al telefono il giorno prima che morisse: “Ah se tu fossi a Firenze, con la mamma! Quante cose sarebbero diverse!” Cosa volesse dirmi non lo so. La mia replica era stata”Ho comprato un letto apposta per te. Ora puoi stare a Messina quanto vuoi nel mio loft e potrai farti tante passeggiate sul lungomare. Sai hanno costruito una bella pista ciclabile e nessuno qui ti darà fastidio”.
A Ponte Santa Trinita si faceva buio e mentre s’accendevano le luci della sera nel mio cuore la ferita sanguinava sempre più. L’Arno era scuro come il buio del mio cuore ed il cielo era sempre più nero. Non c’erano stelle. Non c’era la luna. Quando raggiunsi Le Giubbe Rosse vi trovai tanti americani ed il fascino che il luogo aveva sempre suscitato svanì nel giro di qualche secondo. Loro erano là per caso, il posto non aveva alcun significato. Ospite del gestore del locale, scelsi una pizza che sapeva tanto di menù turistico. Alla stazione, ancora tanti, troppi stranieri e non erano solo turisti. Trenitalia cambiò anche il mio itinerario. Il treno viaggiava già con un’ora di ritardo. Il posto del solito vagone letto di prima classe non era comodo in quel treno moderno. Non ero sola nello scompartimento e la sconosciuta che viaggiava da Milano a Siracusa raccolse il mio sfogo. Alle Giubbe Rosse avevo lasciato per Maurizio una composizione poetica scritta sul tovagliolo di stoffa, una poesia intrisa di amarezza, delusione e dolore...
13 Aprile 2008

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