giovedì 30 aprile 2009

Stafford e dintorni: la partenza

Accettai di insegnare nei corsi per studenti stranieri dell'University of Staffordshire per passare un estate diversa dalle altre, lasciando la calura messinese per il fresco del Midland inglese, dopo un anno scolastico stressantissimo perchè avevo avuto ben quattro scuole. Inoltre il giorno del mio onomastico, il 15 Ottobre, all'uscita di scuola, dopo il laboratorio di giornalino caddi davanti alla scuola rovinandomi una caviglia, quella sinistra. Lo stress ed il cortisone mi procurarono anche il diabete, essendo già un soggetto a rischio!!! Mi organizzai decidendo di prendere un volo lowcost: Ryan air da Palermo a Stanstead. Il treno da Messina portò un notevole ritardo e così la lumaca di collegamento dalla stazione centrale di Palermo all'aeroporto di Punta Raisi. Arrivai al check in in tempo per partire se solo avessi lasciato la valigia a qualcuno. Essendo sola dovetti cambiare il biglietto pagando altri 246 euro e senza pensare che sarei stata costretta a passare ben ventiquattr'ore seduta su una sedia in aeroporto! La Sicilia con tutta la sua civiltà in quel momento mi appariva terzo mondo! Le ore in aeroporto non passavano e a parte salire e scendere non c'era proprio nulla da fare. Col telefonino dovetti gestirmi varie telefonate di richiesta d'aiuto ad amici perchè consegnassero la mia domanda di assegnazione provvisoria al CSA!La stanchezza cominciò a farsi sentire nel momento in cui mi trovai proprio sola e con solo qualche luce.
Con l'arrivo dell'ultimo volo della notte fu aperta la stanza di accoglienza per disabili ed i giovani volontari furono così gentili da ospitarmi e da chiudermi nella sala fino alle primi luci dell'alba quando arrivò un altro gruppo di volontari. Rimasta sola mi distesi su un divano usando la borsa come cuscino! La stanchezza era la stessa del pomeriggio in cui a Firenze mi ero aggirata per Via del Proconsolo ed ero finita a fare una chiacchierata riposante con Elisabetta di Costanzo, un'artista della creta che la sua bottega proprio di fronte al palazzo Pazzo non finito!
La loro accoglienza fu un benefico balsamo!
La Ryan è davvero low, in tutti i sensi, ma potetti acquistere il biglietto scontato per andare in centro per prendere il pendolino per Stafford. Victoria Park , proprio di fronte alla Stazione è parco veramente bello, faceva fresco e sembrava essere stata una bella giornata, cosa piuttosto rara nelle otto settimane che avrei trascorso a Stafford. Il tassista mi consegnò a Paul, simpatico scozzese, cui avrei chiesto tutte le sere di farmi leggere il giornale. Lui, con un mazzo di chiavi, aggiornato su tutti i gossip EAC.
Westin 7 la mia simpatica dimora nell'appartamento degli insegnanti fin quando non traslocai al westin 9, più comodo e più grande! Il tempo di cambiarmi e spuntò Kevin, il Director of Studies che mi accompagnò a mensa per l cena: Salmone a vapore, panini di tipo francese, radicchio e pomodori per insalata e ananas!
Breve il tragitto per raggiungere la mensa e così scoprìì che quello è il luogo in cui è stata progettata la macchina di Briatore. L'Octagone! che simpatica costruzione, il luogo più amato dagli studenti, soprattutto spagnoli perchè durante il break potevano avere accesso a internet e chattare con amici e parenti!
Accanto all'Octagone la palazzina con la mensa. Vi si può accedere anche attraverso il Bar, Dulche Vita, annesso alla mensa e gestito dalle antipatiche cameriere che servono i nostri pasti e che non sopportano gli alunni che non fanno la fila all'inglese e gli accompagnatori che brotolano per la qualità del cibo!Qualcuna si chiama Jane, alcune condividono anche il nome Carol. A colazione perdono molto tempo ad aprire le bottiglie di latte fresco per versarlo in boccali di alluminio o di plastica -a mio avviso- inutilmente! Non si possono prendere più di due fette di pane tostato e di un crossaint. Quindi il povero Carlos o Simone di turno vengono puntualmente rimproverati!

martedì 28 aprile 2009

Ricordi fiorentini


La prima volta che andai a Firenze non avevo ancora sette anni e ricordo che volevo andar via dal ristorante perché se avevano dimenticato di mettere il sale nel pane sicuramente avremmo mangiato male. Papà mi rassicurò precisando che il pane era sciapo perché il prosciutto era bello e salato. Mi spiegò anche che ai tempi di Paolo III c’era stata la guerra del sale. Col tempo mi abituai a mangiare il pane sciapo quando si era in Umbria o a Colle Val d’Elsa. Quando iniziai a viaggiare da sola lo mangiavo anche tostato dal nostro amico Mario che abitava in un attico di Via Bellariva . Lo gustavo perché era proprio lui ad abbrustolirlo su una graticola cinese. E poi c’era sempre la ribollita della Maria. Col passare degli anni il pane sciapo, Mario e la ribollita sarebbero divenuti una sola cosa. Poi c’era tanto silenzio in quel terrazzo pieno di piante “trascurate” che ad ogni mia visita rinvigorivano.
Mi piaceva molto andare a Firenze e trascorrevo molto tempo in Via Bellariva. Attraverso le parole dell’amico mi nutrivo di poesia e quei personaggi che a lungo erano esistiti nella lettura ritornavano in vita e prendendomi in braccio mi cullavano: la seconda generazione dell’Ermetismo, Campana, Rebora, Gatto, Montale, Quasimodo, Traverso. Mi immaginavo di origliare le conversazioni tra Dino e Sibilla mentre passeggiavano, partecipavo alla Messa celebrata da Carlo Betocchi e osservavo, non vista, il burbero e inquieto Montale seduto dietro una scrivania del Visseux con una sigaretta in mano. Sommerso di libri, nel riverbero della fioca luce appariva intento a tratteggiare su un foglietto la sua volpe, circondato da cocci di bottiglie. Mi trovavo negli anni trenta al Caffè San Marco quando Leone leggeva le sue traduzioni dal Tedesco e Oreste quelle dallo Spagnolo durante le loro cene di universitari squattrinati. E c’erano i Macchiaioli. Ed ero là quando in incognito spuntò Lenin ed il cameriere avvisò il gruppo. Rivivevo le concitate fasi della pubblicazione di “Americana”, che avrei avuto tra le mani e che avrei sfogliato con una bruciante passione nella biblioteca di uno dei più prestigiosi atenei americani dopo qualche anno.
Partivo sempre dalla Sicilia col treno delle 19.30. Un espresso in cui il vagone letto era sempre solo per me, così potevo dormire tranquilla. S’arrivava a Firenze alle 5.30 e dalla stazione andavo a piedi dalle suore “francesi” attraversando Ponte Santa Trinita. Il cielo cambiava colore così rapidamente tanto da avvolgermi col suo incanto e mi trasportava indietro nel tempo per farmi rivivere i fasti della corte de’ Medici. Nel mio trolley c’era sempre un taccuino e così potevo annotare pensieri, emozioni e fantasie. Man mano che la luce del giorno si faceva più chiara la città prendeva vita e i furgoni consegnavano i giornali, l’odore dell’Arno si impregnava di pane appena sfornato e gioivo nel vedere trote e pernici.
Alle sette, puntale, suonavo il campanello delle suore. S’apriva il lato piccolo del portone e prendevo possesso della mia dimora. Era una stanza molto grande con bagno accanto e un vecchio tavolino dove potevo comodamente scrivere. Gli arredi erano semplici e spaiati, anche se sempre tenuti in ordine. La stanza semibuia, non arrivando mai raggi di sole era accogliente e per nulla fredda. Aveva un certo fascino con la grande finestra a grate per sembrando da fuori la cella di un carcere. Il vecchio lavandino di pietra non era scomodo. La cosa più bella di quel luogo era il meraviglioso giardino dove il profumo di rose unito alle preghiere saliva in cielo con speciale rapidità. Le suore erano particolari. Facevano le infermiere e parlavano un francese sgangherato ma erano sempre molto affettuose con me. Mi davano ospitalità per qualche giorno o per qualche settimana, e non posso dimenticare la loro generosità di quando andai per prendermi cura del vecchio amico appena uscito dall’ospedale e convalescente. Ero senza lavoro e avevo affrontato un lungo viaggio!
Verso la fine degli anni ottanta erano trendy i mocassini di camoscio beige o neri, stile casual che completavano l’abbigliamento tipico di molti inglesi e americani. Un pomeriggio di settembre, e faceva caldo pensai di andare a passeggiare in giardino. Una delle suore stava seduta su un telo sommersa da una montagna di centinaia e centinaia di scarpe da appaiare. Erano state donate da una fabbrica per i poveri. Mi chiese di aiutarla. In mezzo a quella montagna di scarpe d’ogni tipo, quante risate nel vederla provarsi scarpine di tela con tacco di corda, 35-36 a pianta stretta. Lei che aveva una pianta larga e tante cipolle e che da sempre portava scarpe basse! E magari in quel momento sognava come sarebbe stata bella ad un ballo di cinquanta o sessanta anni addietro. Mi divertii tanto nell’aiutarla e poi portai a casa tre paia di mocassini! Non erano le Clarks originali ma erano molto comode per chi come me ha imparato l’importanza della praticità.
Ogni volta che partivo portavo sempre dei dolci e qualche bottiglia di vino alle suore il cui indirizzo mi era stato dato negli anni settanta da una mia amichetta d’infanzia che era venuta a trovarmi dall’Australia e che aveva girato l’Italia spendendo poco e divertendosi tanto. Una volta la superiora non c’era e così quando ritornai dopo qualche settimana le suore non avevano ancora assaggiato la pignolata. Era ancora squisita quando la mangiarono! A Mario portavo invece i ‘zuddi o i sesamini che amava intingere in un sorso di vin santo e le arance quando era la stagione dei tarocchi. Una volta gli portai una meravigliosa cravatta di seta blu. L’avevo fatta ad uncinetto, come le faceva una suora di Ferrara. Ne feci tantissime ma quelle blu per papà e per Mario erano davvero speciali. La seta era di straforo. Me l’aveva procurata un’altra suora in cambio di mezzo chilo di seta grigia, poiché quella blu l’aveva acquistata tutta Suor Celeste per le cravatte da donare ai medici che l’avevano curata.
Quando andavo dal Maestro era sempre festa ed avrei voluto che il tempo si fermasse. A cena mi portava sempre in pizzeria perché non lo faceva mai papà. Un posto modesto nei pressi di casa ma a Ganzirri quando stava giù. Lo aiutavo nelle piccole cose di ogni giorno, passavo anche ore ad osservarlo seduta sulla poltrona di vimini, dove soleva sedere lui. Gli facevo da assistente- cambiando solo i fogli nella macchina per scrivere evitando di leggere i versi del foglio appena tolto per non violare la sua intimità creativa. “Sistemava” i suoi componimenti preso dalla frenesia di scrivere a macchina, una magnifica e preziosa Olivetti con cui ha scritto tutto tranne i primi due volumi di versi e ciò che altri avrebbero scritto poi al computer. Copiava a macchina prendendo pezzi scritti in agende diverse ma seguendo uno schema già fissato su fogli di carta a righe di una banca toscana. Ricopiava da quaderni con la copertina si seta cinese color turchese, ma anche da una bella agenda di pelle con le sue iniziali, regalo del Flori, o da fogliettini con Snoopy che gli dava Bilenchi. Se squillava il telefono, ed erano amici o scocciatori, dicevo che il Maestro aveva gente, così poteva sistemare i suoi versi. Scorrevano le due dita sulla tastiera. Il suo volto si trasformava e c’era un qualcosa di magico, una meravigliosa intimità che univa il foglio bianco, i quadretti manoscritti, lui e la macchina per scrivere. In quei momenti era un direttore d’orchestra che con la sua bacchetta dirigeva magistralmente i fonemi e la musica di un mondo in ansia di nascere.
Una sera di fine estate uscii con lui per una passeggiata ma avendo freddo presi in prestito il suo cardigan blu. Appena me lo vide indosso disse che avrei potuto tenerlo ed io scherzando replicai che dopo il cappotto di Montale di Elio Fiore poteva anche starci bene qualcosa sul suo cardigan. Quello beige, che lui teneva quando stava seduto nel suo studio era di bell’effetto quando facevano delle riprese televisive. Sembrava di cachemire attraverso lo schermo e sempre nuovo.
Mi sarebbe piaciuto vivere e lavorare in Toscana, e l’umile stanzetta delle suorine sarebbe potuta diventare il mio regno. Sognavo di arredarla con le mie cose. Immaginavo di riempirla di scaffali coi miei libri, le mie Parker, i miei pennini, le mie conchiglie. Quante conchiglie a casa mia ma nessuna grande come quella che Mario teneva all’entrata del suo attico. Sarei potuta andare in biblioteca e leggere i vecchi numeri del Frontespizio. Facilmente sarei potuta andare in autobus da Romano e Maria Bilenchi che mi stavano cosi simpatici. Avrei potuto trascorrere qualche pomeriggio a settimana dalla zio Oreste, come mi piaceva chiamare il critico Macrì, anche se non era fratello di nonno Angelo .
Quando finalmente ebbi il fax col numero di protocollo del posto che sarebbe stato mio all’Università di Siena mi sembrò di toccare il cielo a piene mani. Avrei potuto sistemare le cose di Mario nel mio tempo libero. E per sempre avrei potuto ascoltare i miei vecchi fiorentini che avevo conosciuto grazie al mio Maestro. Volevo sempre che mi raccontassero qualcosa della loro gioventù. Me li vedevo ventenni, Mario e Piero che andavano dietro alle ragazze fiorentine all’uscita della Facoltà di Lettere. Attraverso i loro ricordi li vedevo in aperta campagna con solo un foglio di carta. Mario scrive la poesia dedicata alle ragazze fiorentine. Sul retro ne scrive una Piero.
Passeggiando per le vie della fiabesca e rinascimentale Pienza, in occasione del matrimonio dei miei cugini Franco ed Elide, in Via dell’Amore sono felice di vedere una donnola e di respirare la stessa aria che Mario respira d’estate quando trascorre il suo periodo di riposo e passa i pomeriggi a chiacchierare con l’amico prete. Pienza, città di Papa Piccolomini, città dell’Amore grazie a Zeffirelli! Un pomeriggio d’Agosto in cui ci vado a trovare Mario c’è anche Don Ferdinando e posso così trattenere in una foto stupenda il sorriso di entrambi per conservare in un album di fotografie il profumo dell’amicizia. Un’amicizia che si consolida negli anni e che va oltre la vita terrena nel “viaggio di Simone Martini”.
Per i 75 anni dell’amico volevo pubblicare una raccolta di saggi critici e così chiesi a Mario di farmi i nomi delle persone a cui teneva in modo particolare. Si prevedeva un numero speciale della rivista Prometeo. Quando giunsero i soldi venne pubblicata un’altra cosa e così tengo ancora una scatola con tutto il materiale raccolto, che odora non di vecchio ma di sopraffazione. Il Rhegium Juli mi aveva chiesto di preparare una plaquette e cosi chiesi a Piero quel foglio di carta che da anni gelosamente conservava. Ci incontrammo in un bar all’uscita di una mostra inaugurata da Spadolini. Piero era con la moglie ed un suo ex alunno, un certo Vittorio. Pensando che si trattasse dell’alunno cui era stato dato quel foglio per una tesi, chiesi se anche lui scrivesse poesie. Il giovane passandosi la mano tra i capelli rispose con distacco di interessarsi d’ arte. Vivendo negli Stati Uniti come potevo conoscere un tipo che passava le serate al Maurizio Costanzo Show? Sono stata l’unica intellettuale- a detta di Piero- a trattare con indifferenza un tale personaggio! L’Arte per me era quella dei grandi pittori che avevo studiato ed amato e non mi interessavano i critici come Zeri per me sempre molto ingombranti. Loro avevano stroncato il mio amato Vincent Van Gogh durante la sua esistenza!
L’ultima volta che andai a Firenze, rimasi solo una giornata. Lasciai il mio trolley alle Giubbe Rosse, dove pranzai e cenai. La città non era più la stessa. Mario non c’era più da qualche mese. Chissà cosa ne aveva fatto Gianni della casa del padre? Telefonai ad un’amica che m’invitò per un tè nel primo pomeriggio. Il suo racconto mi procurò un vuoto allo stomaco. Mario negli ultimi tempi era stato sulla bocca di tutti in città per quelle sue nuove quanto strane amicizie. I giornali erano anche stati poco benevoli con il novantenne senatore e gli vennero attribuite frasi ed atteggiamenti che di certo non appartenevano a lui. Sentire che prima del funerale, mentre la città gli rendeva omaggio, qualcuno fosse entrato in casa a violare la sua intimità e il dolore di quanti gli vollero veramente bene, fu per me una pugnalata . Quante volte Mario mi aveva detto di portarmi a casa libri, quadri e scritti! Non avevo osato che chiedergli di darmi il suo discorso manoscritto tenuto all’Università di Siena. Un discorso scritto su minuti foglietti quadrati. Non mi ero portata neanche l’enorme conchiglia impolverata dell’entrata.
Gironzolai per la città col cuore a pezzi e lacrime pesanti scendevano pregne di dolore. Proprio sotto quella targa che ricorda l’incontro di Dante e Beatrice, una cinesina intrecciava palme trasformandole in animaletti. Comprai una tartaruga per due euro. Il dolore era immenso e lacerante. Entrai nella bottega di ceramica di un artista, i cui lavori erano dominati da uccellini. Comprai due o tre paia di sandali cosi di tanto in tanto potevo sedermi a riposare. Avrei rivisto Maria Bilenchi ma aveva la febbre e mi disse di andarla a trovare un’altra volta come se abitassi nelle vicinanze. Sandro Parronchi stava già male e così quella calda giornata di primavera fu per me terribile. Era come se Mario fosse morto di nuovo e sentivo quel freddo gelido pungente che ad Amherst fa venire il torcicollo e la voglia di rannicchiarsi sotto le coperte.
Camminai senza meta, per far passare le ore fino alla partenza. E risuonavano le ultime frasi che Mario ed io ci scambiammo al telefono il giorno prima che morisse: “Ah se tu fossi a Firenze, con la mamma! Quante cose sarebbero diverse!” Cosa volesse dirmi non lo so. La mia replica era stata”Ho comprato un letto apposta per te. Ora puoi stare a Messina quanto vuoi nel mio loft e potrai farti tante passeggiate sul lungomare. Sai hanno costruito una bella pista ciclabile e nessuno qui ti darà fastidio”.
A Ponte Santa Trinita si faceva buio e mentre s’accendevano le luci della sera nel mio cuore la ferita sanguinava sempre più. L’Arno era scuro come il buio del mio cuore ed il cielo era sempre più nero. Non c’erano stelle. Non c’era la luna. Quando raggiunsi Le Giubbe Rosse vi trovai tanti americani ed il fascino che il luogo aveva sempre suscitato svanì nel giro di qualche secondo. Loro erano là per caso, il posto non aveva alcun significato. Ospite del gestore del locale, scelsi una pizza che sapeva tanto di menù turistico. Alla stazione, ancora tanti, troppi stranieri e non erano solo turisti. Trenitalia cambiò anche il mio itinerario. Il treno viaggiava già con un’ora di ritardo. Il posto del solito vagone letto di prima classe non era comodo in quel treno moderno. Non ero sola nello scompartimento e la sconosciuta che viaggiava da Milano a Siracusa raccolse il mio sfogo. Alle Giubbe Rosse avevo lasciato per Maurizio una composizione poetica scritta sul tovagliolo di stoffa, una poesia intrisa di amarezza, delusione e dolore...
13 Aprile 2008

mercoledì 22 aprile 2009

Un prato di lacrime

Un prato di lacrime senza parole
mani stanche vuote sporche insanguinate
nella strada senza chiacchiere e profumi
dove gli affetti il mostro ha ingoiato
pregno di detriti notturni soffocanti.

Con un fulmineo calvario
e senza passione
è arrivata la morte.

Ora piangono madri
piangono padri
piangono figli
alle tendopoli.
Al numero 46 non c'è più nulla
intrecciati nel dolore tante vite
sbriciolate le case non resta che il vuoto
vicoli fantasma e la porta di ferro non si apre.
Morti anche gli animali
puzzano le carcassee
diventa difficile la vita del contadino.
E' morto il dentista con la famiglia
morta la Madre Badessa delle Clarisse
a Sant'Eusanio l'orologio è fermo alle 3.32
ovunque è gara di solidarietà
centocinquanta disabili in tende
fredde e bagnate di pioggia
ma non siamo tutti aquilani.

Medici clown e tanti giocattoli
matite e fogli di carta
e un bimbo crea l’insegna
“Via delle farfalle”
sognando un raggio di sole.

Ore 17.33

Quella stanza d'ospedale
brutta grigia
da tener lontana ritorna
di nuovo amica nemica
incubo sollievo
e all'improvviso il sole caldo
già di primavera
si oscura tra le nuvole grigie
nere pregne di pioggia
come lacrime implosive
dentro il cuore che
in un fiat si gela.

Inghiotti amaro e sai di bere
ancora dall'amaro calice
fugace presente
già futuro e già passato
prova inconfutabile
s'intreccia col palpito di primavera
d'umidi daffodil inglesi e tre boccioli
di rose gialle e senza spine.

N come nonna


La nonna era del 99. Era nata il 5 marzo ed era figlia unica. Le piaceva lo zucchero a zollette. Le zollette di zucchero ed il caffè macinato acquistati da Micali furono la salvezza dei Panuccio che rimasero sotto le macerie per circa dieci giorni. Come tanti soppravvissuti nel terribile sisma furono portati a Palermo. Il bisnonno non volle andare negli Stati Uniti e ritornò a Messina, dove su suggerimento di un amico acquistò quattro case a Paradiso per cominciare una nuova vita. Era bellissima Angelina. Biancolatte la carnagione. Azzurri gli occhi. Biondissimi i lunghi capelli. Morbida e vellutata la sua pelle. Di poche parole e raramente usciva di casa. Curava con amore le sue piante e ne aveva tantissime. I suoi gerani, profumati e belli ci facevano compagnia quando nei pomeriggi d’estate parlavamo. Da lei ho ereditato la passione per il giardinaggio. Non sono mai riuscita ad avere gerani profumati e belli, ma le mie rose sono davvero meravigliose e l’invidia del Paradiso.
La nonna leggeva Grazia, Amica, Gioia, Bella e Confidenze. Poi commentava con le figlie i lavori proposti. Ordinava da un catalogo, Modafil, le lane e i cotoni da utilizzare. Faceva un ordine unico con alcune figlie e quando arrivavano le matasse l’aiutavo a fare i gomitoli. Lei e la figlia più grande li facevano perfettamente ovali con buchetto al centro dei due lati. A me non riuscì mai di avvolgere una matassa perfettamente neanche con l’arcolaio e la cosa dopotutto non era importante. Come la mia mamma sono stata sempre pratica anche se mi dispiace vedere le matassine di cotone conservate e avvolte imperfettamente.
Le case delle zie, quelle perfettine, mi mettevano a disagio. Col tempo mi resi conto che non c’era lo stesso calore e le stesso grande amore che invece c’era da noi. La nonna ci metteva tanto amore nel fare le cose e così i maglioni ai ferri, scialli e mantelline ad uncinetto, centrini a filet erano proprio belli, spesso più belli di quelli fotografati nelle pagine delle riviste.
Leggeva attentamente tutti i consigli di giardinaggio, conosceva tutti i nomi scientifici delle piante e quando gliene piaceva qualcuna se la faceva comprare e magari poi la riproduceva per talea per qualche figlia. Prestava molta attenzione alle ricette, prendeva nota degli ingredienti e poi con trionfale orgoglio le presentava a tavola. La nonna non andò mai a fare la spesa. Dapprincipio ci pensava il nonno mandando qualche operaio, poi cominciò a portare con se la mamma che cominciò ad avere carta bianca nei vari negozi della città. Nelle vicinanze c’erano fruttivendola, macellaio e salumiere, così telefonava per farsi mandare la spesa.
Appena alzata, la nonna preparava il bricco del caffè alla turca cosi mentre andava in bagno a lavarsi il caffè aveva il tempo di ricettarsi per inebriare col suo profumo tutta la casa. Era ottimo il caffè della nonna. Il nonno le acquistava dei contenitori di caffè Illy che sembravano pentoloni lucidi. Le nonna poi si sedeva a macinarlo, tanto quanto bastava, per averlo sempre fresco. A volte con l’intento d’aiutarla prendevo il macinino e per farlo girare mi pizzicavo la pelle e lanciavo qualche grido di dolore alla vista del sangue. Avevo sempre la passione di girare e rimestare. Così ero sempre pronta ad aiutarla quando faceva il pan di spagna. Si sbattevano gli albumi a neve con due forchette finché la forchetta stava dritta nella grande ciotola di porcellana bianca mentre i tuorli con lo zucchero si giravano col cucchiaio in una ciotola di smalto più grande per aggiungere un po’ alla volta l’amido prima infornarlo in una grande teglia. La nonna usava la ricetta per dodici uova e questo dolce fu merenda della mamma e degli zii anche in tempo di guerra, quando sfollati in un paesino della provincia lo “sfornava” adagiando la teglia sul fornello a carbone e mettendo anche la calde cenere sul coperchio che metteva sulla teglia .

Da ragazzina lavoravo per la Stanhome e così quando le compravo le riviste non mi prendevo mai i soldi che avevo speso. Un giorno la trovai seduta sul divano che piangeva. Nel cambiare l’acqua ai fiori aveva rotto il bel vaso che avevo regalato alla mamma per il suo onomastico.
La nonna lavorava ai ferri e all’uncinetto e così m’insegnò a lavorare la lana che avevo sei anni ed insieme a lei feci una coperta del mio corredo. Le zie si facevano fare sempre le maniche dei maglioni dei bambini, la mamma invece preferiva farsi bordare ad uncinetto dei centrini di lino. Ne ho tanti a casa, soprattutto in lino acquamarina che la mamma fa vedere ancora alle amiche.
La nonna aveva in casa lavatrice, lavastoviglie, televisione ed aria condizionata quando tanta gente queste cose le sognava. La sua prima lavatrice aveva i rulli in cui bisognava passare i panni per strizzare l’acqua e cosi quando facevano il bucato la lavatrice la dovevano spostare. La lavastoviglie era a quattro piani perché ogni sera a cena eravamo in tanti. Non erano ancora in uso stoviglie usa e getta e noi bambini prendevamo un bicchiere pulito ad ogni bevuta. Si era soliti passare il pomeriggio tutti insieme. Le zie dalle loro case venivano con borse, pacchi e pacchetti appena finivano di fare i servizi di casa. Per noi era sempre festa. Giocavamo in tanti modi e poco prima che iniziasse la TV dei ragazzi si faceva merenda. Spesso la nonna telefonava al bar Venuti per ordinare i “piemontesi” . Erano enormi ed ognuno veniva diviso in quattro parti uguali. Col tempo il pasticciere, coll’aumentare il prezzo del dolce ne rimpiccioliva le dimensioni. A volte ci era permesso fare merenda con pane burro e zucchero o con l’uovo sbattuto. Nonna e mamma, non amavano molto che si facesse questa merenda. Noi si e tantissimo perché c’era da sbattere il tuorlo con lo zucchero in un tazzone e poi si montava a neve l’albume in un piatto fondo con forchetta. Che concerto di stoviglie! E quanto da lavare dopo! Ma che spasso. A volte poi si facevano le torte al cioccolato. A me non piacevano perché mi sembrava mangiare la carne di qualche nero come quelli che vivevano in Africa. Un’altra merenda che amavamo era il pane con il latte condensato. Alla nonna piaceva metterlo per fare colazione nel suo caffè alla turca.
Dalla nonna il pane non mancava mai. Lo portava due volte al giorno un certo Laganà, che lavorava nel forno dello zio. Il pane Roma era speciale ma anche i marsigliesi e quand’erano fumanti la nonna ne preparava uno con olio sale e pepe e lo condivideva. Era anche questo un momento di festa.
La giornata della nonna aveva un ritmo instancabile. La donna di servizio era come un membro della famiglia e seppur analfabeta aveva un modo tutto suo per riuscire a fare qualche telefonata. Il bucato si faceva ogni giorno perché il fratellino della mamma bagnava il letto ogni notte! Poi grembiuli, tovaglioli e strofinacci andavano bolliti e zorati nell’ultimo risciacquo. In cucina c’erano due enormi bacinelle d’alluminio. Quando si toglievano dal fuoco non si potevano toccare i panni. La bacinella veniva messa a terra in attesa che i panni si potessero sciacquare prima di finire in lavatrice. Quando il calciatore Benitez lasciò Messina ci regalò un pallone di cuoio usato in una partita di Serie A, uno dei cuginetti che era piccolo cercò di giocarci ma finì col culetto ustionato cadendo proprio nella bacinella del bucato bollito!
Il pesce fresco arrivava con Peppino, uno dei dipendenti del nonno che si fermava qualche attimo in cucina per raccontare qualcosa della famiglia e d’inverno appena entrava in casa si toglieva la coppola in segno di rispetto. I giornali arrivavano di mattina, consegnati personalmente dal figlio maggiore degli edicolanti. Al salumiere la nonna chiedeva anche di mandare il resto di diecimila lire. Dopo le pulizie, la nonna e la mamma decidevano il menù del pranzo. Non mangiavamo tutti la stessa cosa. Per pranzo la tavola rimaneva apparecchiata fino alle due e mezza. Non si pranzava tutti insieme durante la settimana. Si pranzava nel salone con tutte le serrande abbassate e i lampadari accesi. La nonna era convinta che i preti potessero affacciarsi e spiarci.
A cena s’apparecchiava anche il tavolo bianco della cucina. Era per noi bambini soltanto. I grandi cenavano guardando il telegiornale senza che noi l’infastidissimo con le nostre risate o i nostri screzi. Poi in religioso silenzio andavamo nel salone per vedere Carosello. Qualcuno crollava prima che finisse e così quando si svegliava non sapeva neanche che l’avevano sceso tenuto in braccio in ascensore!
Dopo cena, prima di andare a letto, la nonna preparava qualcosa per il figlio scapolo, in caso avesse fame quando rientrava. Anche lui come la nonna, non faceva mai sentire la sua voce. Puntualmente ogni mattina, la pietanza lasciata per lui era intatta. Ogni giorno andava riciclata.
La nonna teneva i capelli a forma di chignon e li tagliava solo per togliere le doppie punte. Poi usava forcine di tartaruga e uno o due ferretti. In tasca teneva un fazzoletto, gli occhiali e l’uncinetto, ma anche una spilla di balia. Non portava reggicalze e così si faceva le giarrettiere. Non aveva mai calze rovinate. Se era possibile riammagliarle le mandava in merceria ma usava sempre la stessa marca e lo stesso colore. La mamma, aveva una grande amica che aveva una grande sartoria e così la signora Vittoria veniva a provarglieli a casa i vestiti, per i quali la mamma usciva sempre per comprare le stoffe. Negli ultimi anni fu invece la figlia di uno degli operai del nonno a confezionarle i vestiti.
Il nonno amava viaggiare ed ogni anno andava alla Fiera del Mobile a Milano, in crociera d’estate e poi a Fiuggi e a Chianciano con gli amici. Lei si spostò solo in occasione del matrimonio del primogenito, per il quale si recò anche a Roma quando si temette per la sua vita e lo operò il famoso e insigne Prof. Valdoni.
Quando d’estate si prese l’abitudine di andare a Paradiso nella casa al mare lei non scendeva mai in spiaggia. Rimaneva all’ombra nel terrazzino su una sdraio, sempre elegante e con un bel cappello. Sandali di nappa e borsa coordinata. Sorrideva molto la nonna finché non rimase vedova. Poi le cose cambiarono e vivere con la nuora non fu come vivere con le figlie. La casa fu ristrutturata e due appartamenti trasformati in uno. A lei diedero la stanza più piccola e non fu più attorniata dalla gioiosa confusione cui era abituata. Le mie cugine ricevettero in dono un barboncino principe, che fu la sola compagnia delle sue solitarie giornate. Non indossò più neanche un gioiello. La sua stanza fu arredata con pezzi di mobili diversi e non disponeva più di nulla. Le figlie andavano a giorni alterni a tenerle compagnia. Tornando da Chapel Hill, un giorno approfittai che la zia era andata a pulire la casa delle vacanze e feci venire tutti. Per qualche ora le ritornò il sorriso. L’emozione fu tale che le dovemmo cambiare anche il letto e farle il bagno. L’ultima volta che la vidi feci delle foto con l’autoscatto. Credo di essere l’unica nipote ad avere in casa foto della nonna e con la nonna. Dall’America le scrivevo sempre per tenerla informata dei miei studi, delle mie amicizie, dei miei viaggi. L’ultima lettera che le scrissi arrivò il giorno del suo funerale così non so cosa pensava di me che facevo il pane in casa per mangiarlo a mezzanotte, fumante col burro fuso ed il pesce secco che arrivava dall’Islanda. I genitori di Thorun Rafnar lo spedivano regolarmente alla figlia che divideva con me l’appartamento al n°29 di Colonial Arms. La nonna non aveva mai sognato di andare in quella terra lontana, dove d’inverno era sempre buio ed i cui fiordi erano gelati e dove il buio spinge molti al suicidio.
Nella camera da letto della nonna c’era un baule pieno di corredo. Una volta venne una sorella della mamma che aveva fatto la scappatella intorno ai sedici anni. La nonna aprì il baule e cominciò a darle il corredo che le aveva preparato. Dopo tanti anni il marito le aveva permesso di andare dalla madre! Così ogni volta che veniva la zia si portava via delle cose.
A Natale si faceva un albero di Natale che arrivava al tetto e gli addobbi di varie forme e colori, se cadevano a terra si frantumavano ed erano taglienti. L’odore del pino era inebriante. Si metteva un divano per evitare che i più piccoli s’avvicinassero troppo e ci facevano delle belle foto. Cucinavano per giorni la mamma e la nonna. Come al solito cercavo di aiutare, con i cannelloni che mi piaceva tanto riempire e con le sfinge che sfrigolavo nello zucchero prima di metterle disposte a piramide in una stupenda ed enorme ciotola di porcellana con dei draghi blu.


martedì 21 aprile 2009

m.9-10-1988

Nell’ora dei fantasmi
quando l’alba trabocca da ogni riva
e i pescatori ripetono i tuoi gesti
acuto e chiaro è il tuo ricordo.

Mi affaccio al balcone
e più e più volte
eccoti passare con la barca.
Penso alle tue notti senza sogni
E ascolto ancora
quel vecchio ritornello:
“un tonno, un tonno
l’ha preso! L’ha preso!

Parlavamo Tu ed Io
ed affiorava un tonno a respirare.
Insieme lo prendemmo con trecce
di coriandoli esche ami.

Quanto hai combattuto
tra le onde nere del mare
per sconfiggere grandi e piccoli tonni.

La tua gioia di lotte vittoriose
l’ho portata con me in America.

Estate 1985 - i ricordi più belli:
serbali anche per me
e per chi non sa trovare
le parole e trattenere il tuo sorriso.

Alla notizia della morte di Bill Gugli

Ho aperto la posta.
Un’unica lettera.
Viene da Amhesrt
e
Nina e Vincent Ilardi mi informano
del tuo decesso. C’è un clip della
Hampshire Gazette: “Morto di cancro
venerdì in ospedale, lunedì il funerale.”
Quanta amarezza c’è dentro di me.
Ricordo così l’Angelo d’oro del mio
Hallmark natalizio dell’86. Lo riusasti
per farmi gli auguri al mio ritorno
in Italia. Poi nulla più.
Bill, perché risparmiavi?

Ricordo quella mia piantina
che tua madre innaffiò tutta l’estate
(poveretta è morta anche lei, leggo nel clip)
bruciatesi poi nel gelo d’agosto
nella mia macchina in panne
in the middle of nowhere
vicino a Worchester
solo perchè nè tu nè tua madre
mi invitaste a passare la notte
nella mansion di Newport, Rhode Island.
Bill, perché risparmiavi?

Ricordo i coupon che raccoglievi
prima di fare la spesa
le tue scorte di fragole surgelate
comprate per un quarter alla libbra
e la minestra d’orzo che
mi propinavi il giovedì sera.
“L’ha fatta mia madre domenica scorsa”
dicevi anche alla Nancy.
Bill perché risparmiavi?

Le tue calosce da quattro soldi
l’impermeabile blue degli anni
cinquanta unto e consunto
mal s’intonavano con la tua testa pelata
e la cravatta Gucci che ti avevo donato.
Bill, perché risparmiavi?

Il tuo calendario ad Herter Hall
sbarravi ogni giorno e contavi
i minuti per far finire il semestre.
Sognavi il retirement a sessant’anni.
Bill, perché risparmiavi?

Volevi che stessi per sempre in America.
“La bambina” dicevi “deve restare”.
Facesti i tuoi conti e così
mi includesti nel testamento per farti sposare.
Io cercavo l’amore e rifiutai di sposarti.
Poi incontrai David Alexander e tutto cambiò.
Bill, perché risparmiavi?



Hai perso la mia amicizia
all’ MLA di New York.
Sei morto dopo atroci sofferenze
e nulla hai potuto goderti
neanche i tuoi agognati sessant’anni.
Bill, perché risparmiavi?

lunedì 20 aprile 2009

m.5-3-1983

La nonna faceva il caffè alla turca
ogni mattina e d’estate la granita.
Poi arrivava puntuale il garzone
di Venuti con brioches e panna.
Nelle sere d’inverno quando si era in tanti
tornava con gli enormi piemontesi
merenda per rendere felici noi nipoti.

Passi stanchi e lacrime tacite di sofferenza
serbai tra i piatti di plastica Guzzini coi gabbiani
comprati con il regalo della laurea buoni per
me Teaching Assistant in quel di Chapel Hill.

Nonna, avevo sempre tanto da narrare,
dei compagni di scuola, della Stanhome,
delle conchiglie… tu avevi sempre da ascoltare.
Ascoltasti tutta la vita, tra le macerie del 1908
padre e madre, poi suoceri, marito, figli, generi
nuore, nipoti e pronipoti, e pure Snoopy, il vecchio
barboncino principe morto dopo il tuo decesso.

Nonna quanto parlavo,
avevo sempre tanto da dirti o da ridire,
così il postino consegnò una mia missiva
proprio durante il tuo funerale.
Chissà quanto avrai riso dalla bara
mentre l’una e l’altra nuora litigavano.

Tutti parlavano e tu quasi mai:
ascoltasti tutta la tua vita.
credo che muta rimanessi pure
quando mettevi al mondo un figlio.
Facesti solo un viaggio a Roma
e il nonno crociere e viaggi a non finire.

Non uscivi mai di casa.
Bastava una telefonata ed ecco là la spesa.
Puntuali ogni mattina arrivavano i Renzo
coi giornali. Dopo lo spazzino arrivava Laganà
col pane Roma, caldo e profumato.
Il garzone Centorrino mandava con la spesa e
Michelina la frutta e la verdura con il figlio.
Peppino ci portava poi le medicine, carne e pesce.

Tu facevi l’uncinetto, leggevi e cucinavi.
C’erano le piante da innaffiare e i tuoi gerani
colorati e belli facevano finta di danzare
con noi la sera con le serrande serrate
temendo che i preti salesiani potessero guardarci.

Un sorso d’amaretto non ti dispiaceva
e poi quando scioglievi lo chignon
io spegnevo l’abat-jour ed era “Buona notte”.
Le Las Vegas, gomme alla fragola o alla menta
compravi a dozzine e là, dal tuo comò, poi
si servivano Angelo e Saverio, Eliana, Andrea,
Roberta e anche noi più grandi attenti al
dodici vincente un’altra bubble gum.

Nonna non sai quanto ho da dirti ancora,
i posti che tu hai sognato io li ho visitati
e l’erba e la neve ho calpestato, e il treno e
l’aereo mi han fatto andare. Nonna ho
ancora tanto da raccontarti. Solo io ho
tra i nipoti i ricordi più belli e quelle tue
poche parole …. Nonna ho ancora tanto
da raccontarti…. Ho l’uncinetto tuo e la
coperta che abbiamo fatto insieme…

Nonna, ho le tue foto… usai l’autoscatto ricordi?
….nonna, ci sei ancora ad ascoltarmi?
ho ancora tanto da raccontarti.

Nonna, grazie per essere nata
ed avermi dato la mamma.

Tra sangue e amanza scaveremo versi

Tu che fuggir vorresti
come acqua tra le dita
ti inginocchi con delirante
amanza davanti al fantasma
padrone della tua sorte.
Un quadrifoglio solo tiene,
palpitando tra cielo e mare,
l’incanto dei calanchi
tra torri saracene.
Ascolti con voce calma
tra strade di fango e macerie
senza pace chi viene
portando e chiedendo notizie.
Ti chiedi se nelle crepe del suolo
carco d’oblio potrai fuggire
teco portandomi.
Barcollando nel cieco profumo
della terra scaveremo versi
con sangue e amanza e trattener
potrai cantando coi blue-jay
il quadrifoglio a te legato.

Amherst

Ti vidi, Amherst,
friabile sulle tue nevi
schiudermi sogni
dentro il magico cinguettio di blue-jay.

Da poco sei fuggita
ma come polline ti sorvolo
su piume blue e
sul becco della poesia
bretheren for joy has moved
within the inmost marrow
of my heart bone.*

La saetta che scoccai nel parco
non è ancora scesa al suolo
ma colpirà nelle acque del laghetto
le infinite promesse di un pesce
solitario nell’angolo accucciato.

Non chiedermi perché
tremeranno tenere erbe
e si dilateranno le montagne
e gocce d’acqua e sangue
in diamanti e rubini mutati
splenderanno sussurrando
sull’alta valle la mia gioia
in a year’s turning.**

*affratellata per la gioia che è penetrata nella profondità del cuore
**all’esatto scoccar di un anno

Il terremoto

Il terremoto di cui parli
quelle frane che tu studi
tra fango e sterpi rischiando
spesso la vita risuonano
d’intensità nelle mie orecchie
che ricordano macerie
polvere e sangue viscerali.
Rimbomba lo sfacelo
crollano le profondità
e ruggendo il mare
travolge strade e palazzi
dal primordiale fondale.
Grida, sangue, macerie
freddo, dolore, paura
strappando la vita
riempiono registri
di nomi e di date
nomi senza volto
date sorde al richiamo
della sofferenza e
della primordiale innocenza.
Nella notte eterna
s’acquieta il campanile
e la voce del vecchio
recisa dal freddo dolore
si confonde col vento ululante.
Di lui nessuno più narra
avventure lontane e il rantolo
entra nell’oltretomba sfogliando
l’invisibile calendario e
ritrovando la sua solitudine.

Casa Pitkin



Amhesrt, casa Pitkin
ospiti di Nancy,
a quella festa in nero
(e c’erano anche i miei studenti)
in fondo all’antica scala in legno
si aprì una porticina.

Nella sala gremita e semibuia
con quel camino spento
mi chiedesti “Quello è tuo marito?”
“Ma scherza” io risposi
“ per l’amore non ho tempo”.
Apple cider e cranberry juice*
brillavano nei calici di plastica
tanta la polvere sui mobili
e accatastati i piatti nel lavabo
ma là l’amore ci prese sottobraccio.

Spariva Amherst e solo noi
scaldati da rivoli di lava
vedemmo la costa amalfitana
Noto barocca distrutta dalle frane
tutti i terremoti italici
calanchi e torri saracene
e muta brillava la luna
cristallizzando sogni
nei fiocchi di neve
leggeri sotto il portico.










*Apple cider è il sidro di mele
cranberry juice è succo di un tipico frutto autunnale, un frutto di bosco amarognolo e dissetante

Casa Pitkin, una delle case più antiche della cittadina universitaria, era l’abitazione del famoso antropologo Donald Pitkin, allora docente ad Amherst College, che amava circondarsi d’italianitudine animando una riuscitissima tavola rotonda settimanale. Nancy, una studentessa del Dipartimento di Francese e Italiano e Presidente dell’Italian Club abitava in quella casa durante l’assenza del Professor Pitkin. Quel giorno un Italiano, di nome Carlo, venne nel mio ufficio all’Università e poiché era arrivato da qualche giorno lo invitai a quella festa, dove conobbi David Alexander, incontro che avrebbe stravolto la nostra vita.









A Padre Michele Pontari,sj

Che cos’è l’Etica?

Per giorni e giorni mi sono interrogata
sul valore morale, sulla coscienza morale
ho cercato di definire il valore,
di definire il “morale” aggettivo.
Ho cercato, ho sbirciato, ho trascritto
definizioni, ho sudato e poi?

Che cos’è l’Etica?

Mi sono accorta che non è un libro come
Etica di Bonhoeffer Editore Bompiani
perché nessuno può spiegarmi come
dovrebbero andare le cose che “purtroppo”
non vanno: c’è chi vive in villa con piscina
in salotto e piscina in giardino
e c’è chi vive senza finestra in cucina.

Che cos’è l’Etica?

Non è un volume di consultazione
dove leggasi “azione morale garantita impeccabile”
perché ancora mi chiedo come mai
la figlia di Pincopallino
che non aprì bocca al concorso
prese il ventotto che a me fu negato.

Che cos’è l’Etica?

Non posso essere studioso di Etica
perché solo Lui è il critico competente
e giudice di tutte le azioni.
l’uomo morale o il cristiano si distilla
forse da un alambicco si chiese chi avrebbe
voluto anche personificare il tipo di vita ideale.

Che cos’è l’Etica?

A me non interessa descrivere in sé e per sé
il modo di essere buoni perché solo Lui è Buono
ma solo fare quell’esperienza limite
del dovere che mi aiuti a vivere
nel mondo con gli altri.


Quel viver da figlia sorridendo alla mamma
quando ripete per l’ennesima volta
“Cosa ci fa quel bicchiere sul tavolo?”
Quel vivere insegnando educando
gli alunni al perdono e alla pace
e a discernere il bene dal male.
Quel vivere sempre con la gioia
nel cuore che Dio m’ha donato
donandola agli altri come dono d’Amore.
Quel vivere sempre lasciando ogni cosa
per seguire Cristo là sulla croce,
là sull’altare, là per le strade quando
mi si chiede aiuto solo con lo sguardo.

Che cos’è l’Etica?

Riconciliarsi con Dio e ritrovare unità
quella che Adamo spezzò col peccato
e così la vita e le azioni più ovvie
diventano liete a Christi imitandi
perché in fondo alla strada
egli che è l’Alfa e l’Omega
non cerca titoli accanto a ogni nome
ma solo quanto gli abbiamo somigliato
e quanta sua grazia abbiamo
donato con l’agire umano.

Io ho abitato qui.

Via San Giovanni Bosco n 30 is 255B, Messina


Odora di caffè alla turca il ricordo dell’infanzia
e mi portavano lontano i sogni del mattino.
Quando Laganà portava il pane Roma
per me era festa grande mangiarne il caldo
occhietto con olio sale e pepe.
A tavola si era sempre in tanti la sera
e nelle feste con tutto il parentato
nonna e mamma puntuali
a mezzanotte preparavano la cena fredda
per lo zio che mai avvertiva se tornava.
(Lui sempre fuori con gli amici dopo
il matrimonio ha messo le pantofole!)

Qui sognavo gli States e mi dicevo “chissà
se i sogni diventano mai realtà?”
Qui piangevo anche per ingiuste punizioni
facevo i compiti con la compagnia
di trasmissioni radiofoniche
e passavo ore al telefono parlando
di motori, conchiglie e calcio con i
miei amici o vendendo i prodotti
Stanhome alle loro mamme.
La sera poi un sorso d’amaretto
con la nonna prima d’andare a letto!

Flat 2, 19 Blythe Street, Thonbury (Melbourne)

Odora di birra lo schianto sul muro
nel cuore della notte
quando Mr Liston ubriaco fradicio
ammacca il paraurti della macchina
rosa della moglie interrompendo
i miei sogni innocenti
e il vecchio orsachiotto
poi abbraccio per raccontargli storie
di viaggi in isole lontane
dove nel mare turchino
un gruccione si dispiuma
e noci di cocco dissetano
finchè il milkman non suona
il campanello e papà paga il
latte di una settimana e porta in casa
il Daily Telegraph.

Lesile e Bonnie, detta “nanny” stanno
nella casa accanto. Lui mangia il
minestrone della mamma alle cinque
di mattina e la sera gioca a squash.
Lei mangia sempre meat pie al lunch
e fabbrica giocattoli. Quando la conobbi
mi disse che ero “rude” perché non le risposi
subito per entrare in casa e prendere
il vocabolario. Capii che voleva una scala
ma non ce n’era in casa e non sapevo
come dirglielo. Compresi in quel momento
ch’era importante parlare l’inglese.



Lemiux Street, La Salle (Montreal)

Pasta e fagioli mi obbligarono a mangiare
la zia con le lentiggini alle gambe e suo marito
nel freddo inverno del ‘68 quando nel Belice
tante furono le vittime del terremoto.
Vestiti e sciarpe di lana calda faceva la mamma
con la maglia che ci portava Tina.
Fu un inverno freddo freddo, tanta la neve
buona da mangiare fresca e quando lenta
cadeva era come vivere in “Pattini d’argento”.
Parlavo francese coi vicini e pattinavo sulla pista di
ghiaccio fatta nella backyard dal grosso poliziotto.
Le sciarpe gelate per il freddo sembravano armi taglienti
pungeva anche il muco nel naso e i gioiosi pomeriggi
veloci poi finivano con biscotti al marshmellow
arrostiti nel caminetto scoppiettante.


Quante asciugamani in regalo col sapone
per la lavatrice. Sono ancora nuove nel baule
dei ricordi buoni. Pessimo il ricordo invece
della prof di Francese: Murielle St Pierre.
Chissà perché è l’unica prof di cui ricordo
ancora il nome per intero. Era brutta e goffa
con gli occhialini neri e il golf viola prugnato.
Mi diede “zerò” in francese, il primo giorno
di scuola ed avevo ancora il jetlag dopo il
lungo viaggio dall’Australia
in Canada via Fiji e Hawaii!

Del Natale del 67 mi resta oggi
solo una poesia e nulla più.
Andavo a scuola anch’io col bus giallo
con le scritte nere, proprio come nei film americani.
A San Valentino i compagni mi riempiron
di biglietti che io non ricambiai
e cosi mi tolsero il saluto
per me San Valentino era la festa
degli innamorati e non per noi ragazzi.


Viale Antinori 93, Perugia

Odora di lasagne e pollo al forno con insalata
e dolce il ricordo di casa Sartoretto
dove stavo a pensione unica italiana
tra stranieri venuti a Perugia
a imparare l’italiano.
La mia camera a due letti, non
appena io partivo veniva affittata agli stranieri
e papà pagava profumatamente.
Di fronte l’Onaosi
ospitava gli orfani di medici
Tanti giovani tutor la sera al bar da Franco
incontravo quando spesso inutilmente cercavo
di chiamare mamma coi gettoni in teleselezione.
Messina sembrava irraggiungibile
e così lontana la corte discreta di Massimo
Orsini Federici non mi dispiaceva.
La chiesa dell’Elce col suono dolce di
campane accoglieva anche incontri di Rinnovamento.
Alla messa vespertina delle 19 partecipavo anch’io
quando non ero a lezione di Filologia.
Massimo all’angolo abitava e cercava
il mio sorriso quando uscivo.
Una volta lo invitai alla festa che facemmo in casa
in barba al vecchio Sartoretto.
Eleonora ho cresciuto studiando glottologia
e aiutando la mamma sua con Lord Shaftesbury
vidi la Nicoletta laurearsi
prima di Gianni suo marito.
Quanti stranieri in quella casa:
libici, svizzeri, canadesi,
inglesi, americani, indiani,
un putpourri di vita che i miei
orizzonti hanno allargato.



29 Colonial Arms Apts, Chapel Hill


Ora quando torno a casa
all'ora di cena ho solo sette violette
raccolte passeggiando all'ombra
e posso guarnire l'insalata
con pomodoro avocado mais
water chestnuts e la mozzarella
acquistata a Durham e non più fresca
per avere il gusto dell'Italica terra.

La parmigiana é buona
col Fini stravecchio che papà ha mandato
la pasta è fatta in casa
e la crostata con la marmellata
di rabarbaro fa invidia al miglior chef.

Sfilano nella mia mente
i personaggi dell'Inferno
Roman Ingarden e Ronald Reagan
Ludovico Ariosto e James Joyce
trasformati in briciole del mondo
lucenti e mirabili in questo giorno d’aprile.

A cena forse gli amici islandesi
che porteranno il loro pesce secco
e sarà festa grande anche
per il blue-jay che si dispiuma
nel cielo azzurro oltre l’azzurro
in questa strana primavera.



Water chestnut, croccanti castagne d’acqua, cinesi d’importazione
Chapel Hill e Durham città dello Stato della Carolina del Nord, sedi di prestigiosi atenei americani
Blue-jay, passeracei tipici di molti stati americani

Lettera di Mario Luzi

Cara Teresa,
Ho potuto finalmente e in pace, con la dovuta concentrazione disvolgere la matassa dei tuoi versi. Ci voleva questa condizione di libertà attenta e irrelata: le tue poesie non si possono leggere come le altre. Il bello è che danno molto, non esigono niente, ma coinvolgono la vitalità cordiale e l’immaginazione sensuale e affettiva dei tuoi lettori e devono per questo trovare in essi lo spazio e la vacanza per agire al meglio, con la scioltezza e la mobilità che ti sono propri.
Mi pare di essere nel giusto stato di apertura e di ricettività, dunque. E le tue poesie mi portano dentro i tuoi affetti, mi ci portano insieme con la temperatura che ebbero nella tua vita di studio, di raccoglimento, di incontri, ma anche di esili e dislocazioni. Non solo evocate, le circostanze, ma fatte vivere e accadere e messe a disposizione, per così dire, di chi ti legge e ti accompagna idealmente nel tuo cammino.
La tua affabilità fiduciosa opera questo insolito connubio tra la testimonianza di te e della tua vicenda con la ricerca del senso di essa che tu affidi anche ai tuoi lettori, alla loro partecipazione.
Mi piacciono soprattutto codesti momenti – e sono i più frequenti nel tuo canzoniere- dove tu, anziché arroccarti in una conclusione, lasci la porta aperta alla libera interlocuzione mentale degli altri che si immedesimano con te. Questo lo ritengo un risultato importante, un acquisto di spessore umano e poetico a cui hanno contribuito, oltre alla tua gentile natura e mitezza d’animo, anche la seduzione del visibile che appare e traspare tra le tue parole e la mutevolezza dello scenario. In cui vanno e vengono, s’incidono significativamente volti e paesaggi – ne hai da fissare nel loro essere e nel loro essere stati in questo universo che frattanto continua per te nella sua meraviglia e nella sua grata affezione.
E va bene, Teresa, “Solo un quadrifoglio di primavera
ho trattenuto
dal mio vagabondare in USA
così che un giorno
io vi possa incidere
che a squarciagola
cantarono per me i blue-jay
che verde era
il bosco dove pasai io.

Quel quadrifoglio li significa bene e delicatamente il presente e il futuro. Che io auguro vivo e fervido per te e per la tua poesia.
Un abbraccio, Mario

giovedì 16 aprile 2009

April2nd 1985

April 2nd 1985
A bomb blast destroyed my family
it was just a mistake
my mother and twin brothers
were killed instead of the judge:
his car was behind my mother's.

Blood stains spread up to a house roof
a big hole on the street
my father never recovered
the judge still sees the horror
in a film going over and over his head:
my life hasn't been the same.

I learnt the meaning of mafia.
It hits the innocents and criminals.
The judge has lived as a dead person
for he feels guilty he is alive.
I'm waiting for the spring of my life.
I'd like to hug the judge.

Going to London

I love the time before takeoff,
that stretch of time, no drifting thoughts
and the black fake leather row of seats
where you can meet famous or strange people
and children play with new toys and cry.
Nicola Pietrangeli tall and handsome
doesn’t attract the young girls any more
and nobody asks him an autograph.
The Rai journalist with his blue glasses
seems a waxed statue and I am
proud to have in my group
the young chap from Malèna.
The loud speaker blurts
we all leap up and become
Flight 232 boarding at Gate 13.

At the Anchor house

Blue-jay and clovers wrap my thoughts
in the silent night when seagulls storm the sky
and your ways come on my mind
while pure transits steal some light
from the regions of love and peace.

At the boundary of silence
God has spoken to me
I wonder if you sleep with your face
down against the pillow in the house
by the rocks where the sea is blue
and air smells like jasmine and medlars.

Professor, are you thinking about marriage?
I am not asking when or how as the music
of an harp fills the church on the mountain
and overwhelming joy contemplates
the world clear like water in flames
vibrating with music waves
and unfolding love and butterflies.

A dying mum

Darkness and disappointment
month after month then
you go jogging in Central Park
when you twist your ankle
you sit down next to a mother
breastfeeding her little baby.

Tears come down and your nipples
slum of fire explode with pain.
she tells you all about her IVF baby
and as you listen she dies.

Friendship

Friends listen to you when they are tired
they are there for you in time of need
they call you to say Hi
they sit near you when you're sick
they come to see you if you have a problem.
Friends lend you their bike so you get to
school on time
they pay your phone bill
when you have no money
they send you a pizza when you're hungry
they pay you a round trip ticket
to see you on Thanksgiving.
They come and help you before an exam
they are your shoulder when dad dies
they make a good cappuccino when you're thirsty
they steal for you a coffee mug at Starbuck's in Oxford.

Noon in Ganzirri

This is the time of tensions
between bamboos and bouganvillaes
under the shade of palm trees in the swimming pool
and in the warm water
dreams cross the weak spirit
and my heart rejoyces beyond hope
forgetting myself
in the wind's song
while a lonely horse steams and stamps
at the corner of the road.

Sunday morning

To Elizabeth Naucler

When the light trickles through the cracked
panel of my study room door and
the hooves run like mad
for betting black with blood
at 5.00 a.m.
I know it’s Sunday morning once again.
Ferries come and go on the Strait
and the lights are on
like drifting dots before my eyes
upon the printed pages:
a letter from the Alands.
So I wonder if solid roots along
the chamal wind can travel
North to bring to Volholl
broom, mimosa, bouganvillae
jasmine, capers, almonds,
medlars, kiwis, oranges
and obsidians fine with love.

28-06-1992


Elizabeth Naucler came to Messina as governor of the Aland island to attend INSULA 2000 an International Conference held at the University of Messina and of which I was Scientific Secretary

It's a debt of love and poetry

It’s a debt of love and poetry,
my friend,a pilgrimage to peaceland.
From Kalauae to Mongibello
silent lava stones, oranges, jasmine
medlars and bouganvillaes levigated by time
dance on the rainbow with doves.
Children playing on the old squar
throw in the air balloons and white gloves.
Where are my dreams if nobody listens?
Fire wraps water and mingles earth and sea
while dense vapours reach the blue sky.
Childhood memories I can still find in a
glass of milk and Gary's smile.

11 Settembre

Odora di coke e bouganvillae il sorriso
che scruta l'orizzonte dove
di pietra pomice è la spiaggia e l'aria
salmastra impregna i pensieri
dolciamari che vagano nel vento.

Sono a San Cristoforo a pregare ma in un flash
mi trovo alle Twin Towers con Mario
per il lunch:"Tuna salad sandwich and a coke"
a passi svelti morbidi di Reebok nell rush hours.
Ora mi chiedo perchè nè tu nè Carol rispondete.
"Please leave a message"avete registrato
ma oggi dispersi tra mille e mille ancora
più nessuno ascolterete insieme
a Bob, Tom, Henry e Jane.

Quell'attimo fatale ha distrutto sogni
progetti e la speranza ha messo in forse.
Silenzio e preghiere, fiori e lumi accesi
circondano foto recenti una accanto all'altra
di tutti voi dispersi sotto le macerie.

Odore di cadaveri e paura del carbonchio
opprime adesso i newyorkesi.
Qui splende il sole e sorridono i fanciulli di Canneto
pensando alla regata con le zattere di coke
alla gita d'istruzione e a Dragon-ball.

Chi sono

Teresa Lazzaro è nata a Messina l’8 Dicembre 1955 e dal 1965 al 1968 è vissuta in Australia ed in Canada. Dopo la maturità scientifica ha frequentato l’Università degli Studi di Perugia dove si è laureata in Lingue con una tesi sperimentale di Linguistica e Letteratura Americana sull’evoluzione dello stile di Henry James. Nel 1979 ha ottenuto una borsa di studio quadriennale per conseguire un Ph.D. negli Stati Uniti presso la prestigiosa UNC-Chapel Hill, dove è stata borsista Teaching Assistant sia al Dipartimento di Linguistica che al Dipartimento di Lingue Romanze. Si è specializzata in Linguistica e Poesia cavalleresca prima di insegnare come Temporary Assistant professor alla University of Georgia- Athens, e come Visiting Professor alla San Diego State University e alla University of Massachussetts ad Amherst. Dall’85 all’87 è stata anche Chair del Curriculum d’Italianistica del consorzio Five Colleges, organizzando un convegno su “Ariosto e la corte Estense” e dedicandosi all’insegnamento multimediale della lingua italiana.GKA per essersi distinta nello studio e nella ricerca, membro attivo nel Center for International Scholarly Exchange si è adoperata per il gemellaggio tra la University of Massachussetts e l’Università di Siena collaborando pertanto con il rettore che era stato ministro dell’educazione nel governo Carter e con il rettore che poi sarebbe diventato Ministro della Pubblica istruzione e della ricerca scientifica.
Come Professore Erasmus all’Università di Messina ha curato il Convegno ed il Volume “L’Uomo e il Parco” e poi ottenuta una borsa di studio di specializzazione biennale in Geografia Economica è stata Segretaria Scientifica del Convegno INSULA 2000 ed ha curato il volume degli Abstracts. Nell’anno accademico 1989-90 è stata anche Vice Rettore all’ Università per Stranieri di Reggio Calabria.
Numerosi i suoi contributi di critica letteraria e di poesia a volumi italiani e stranieri. Nel 1989 ha ricevuto il premio Internazionale di Poesia Alfonso Gatto con la seguente motivazione: “L’emergenza del canto privato connota la bilingue dizione poetica di Teresa Lazzaro che nella sua poesia travasa ansie esistenziali e slanci affettivi stemperati da una disposizione che può apparire, di volta in volta fabulistica e narrativa, ma che usa la metafora per trasformare in immagini le emozioni” Amica di Mario Luzi ha curato su invito del Reghium Julii , “Omaggio a Mario Luzi”.
Docente d'Inglese EAC alla Staffordshire University a Stafford collabora con la casa editrice Loescher e sta lavorando ad un testo di civiltà a carattere multimediale Top Women in the English speaking countries.
Ha pubblicato un volume di poesie "Blue-Jay e Quadrifogli" con prefazione di Mario Luzi nel 2004.

mercoledì 15 aprile 2009

Canto d'amore a PANAREA II

I


Di che colore sono gli occhi dell’amore?
Verde bosco o grigio bottiglia?
Chiudo gli occhi e sorrido
sono felice.

L’amore non ha età
dicono gli alunni
e così ti rivedo col tuo berretto all’alba.


II
Odora di violetta
e limoncello
l’eco dell’amore
intenso e bello
che ci lega con fili celestiali.

La conchiglietta brilla
calda e tenera
come le tue parole
Eolo accarezza il mare
ma spumeggia solo
l’inno alla gioia
la sua brezza.

Chiudo gli occhi
e ascolto una melodia all’arpa
sul Monte Alto di Maria
nel susseguirsi di scene
da film mentre risuona
l’eco di chi pensa ad alta voce
che l’amore non ha età.

E tu non sei chiunque.
15 Gennaio 2004


III


Piange il mio cuore di commozione
dimentico il passato e protendo verso il futuro.

Ho dentro la gioia dei vent’anni
quando appoggiata al davanzale
mi vedevo già in un college americano.

Quanti sogni
quante preghiere esaudite,
e Tu, Signore,
mi hai donato l’osculum Dei.
Ti sei donato a me
balsamo di vita per illuminarmi
nelle difficoltà
nelle sofferenze
nelle ferite quotidiane
e ora nella gioia
e nella pace vera e piena
perché
a chi cerca la gioia nel Signore
Egli esaudirà
i desideri del tuo cuore.

IV

L’acqua indorata scintilla di pesci
al canto dell’usignolo
quando la dolce brezza del mattino
profuma già di gelsomino.

I capperi a cascate
avvinghiati ai bouganville
danzano nel vento
e le farfalle inseguono le api
e in quest’incanto all’Ancòra ti penso
invasa dalle zagare e mi chiedo
perché t’amo tanto.

18 Maggio 2004



Augurio

Professore, quando si sposa?
è la domanda che tutti con audace
perseveranza ti rivolgono
ma la brezza del vento ostro
non ha ancora accarezzato il filo
dell’amore nel mare irrequieto.

Forse nel museo della brina ci sarà
un valzer per te tra un sorso di Mozart
e una fetta di Sacher Torte e un violino
suonerà anche per i mendicanti di Vienna.

Nella tiepida sera qualcuno ballerà
con te e ti dirà “T’amerò sempre”.
La vastità dell’Arcobaleno
spazzerà via la tua solitudine
e le assopite farfalle e globi d’aria colorati
ricolmi di riflessi esploderanno di gioia
contemplando il mondo chiaro
come l’acqua in fiamme
vibrante di onde di musica.

VI

Quale nostalgia spinge quelle dita
a comporre il numero e raccontarmi
delle tue giornate d’africano
e della lettura sulla vita del Santo
sulla via di Damasco?

Una sera d’estate i nostri sguardi
getteranno l’ancora sullo Stretto
dove lo Ionio s’incrocia col Tirreno
e la farfalla bianca inseguirà i gabbiani
lasciandosi il Maestrale
e passeranno aerei e navi e aliscafi
e le barche torneranno a riva
con il pesce fresco.

Quel passerotto blue
metterai in una gabbietta per me
e i desideri arditi
ripareranno in un attimo
le nostre ferite
nella pioggia estiva
che arderà nei nostri cuori.


VII

Nell’ora della luna
odora di limoni e citronella
l’aria che ci avvolge
quando i neon sono accesi
la tenda tirata e
gli uccellini narrano le loro avventure.

La scena diventa familiare
ma tutto sembra strano
quando i nostri occhi
s’incontrano
s’intersecano
e mutano nel lembo di cielo
e là è gioia palpitante.

Pensiamo uguali pensieri
nel giardino senza rose,
senza gigli e
senza frasi filari di sabbia al vento
che sparpagliano le parole private
non dette ma pubbliche
e lodo Dio
che ti ha dato in dono a me.


VIII

Sogno o nostalgia t’infrangi su di me
con tutti i sensi e brillo nei tuoi occhi
come il silenzio stellato
nell’ora della luna
quando siedi vicino al limone
e il vento dal mare viene da te
chino sul libro e le immagini
reali sono più belle del ricordo.

Io lontana con la preghiera
sempre più vicina agli Angeli
ti affido alla brezza del Paraclito
che spiri con la Sua Potenza intorno a te
e con la Sua luce impregni la tua vita.

Per te ho cercato un gesto di dolcezza
e tenerezza insieme perché sei
dono di Dio nella mia vita.
Dammi la mano e prega insieme a me
e a passi leggeri ascolteremo insieme
flauti e violini accompagnare un canto
profondo traboccante di pensieri vasti e felici.

Epilogo

Fuma Stromboli trascinandosi via
la mia malinconia e la brezza
del mattino mi riempie di gioia
col suo incanto tenero e sensuale.

Dattilo cangiante accoglie del mare
le carezze passati lo scirocco e il maestrale.
Come in un film sull’acqua
qui a Panarea rivivo le stagioni
che nell’anno sono passate
e mi avvolge tanta tenerezza
come sciarpa di cashemere
che in inverno riscalda il volto e il cuore.

Oggi il tuo orgoglio è ruggine
e grigia caligine la luce
allergia del tuo cuore randagio
che adagio adagio respinge la sua chance.

Forte è il filo che ci lega
ma ieri forse sotto il cielo
al buio abbiamo sfasciato tutto.

Dedicato a Rino

Studiavamo Latino ma i paradigmi dal Pittàno
correttamente non riuscivi a interpretare
Mennea e le macchine da corsa più interessanti
dello studio mnemonico
di verbi preteso dalla Scisca.
Miss Gallo col suo Macbeth un vero incubo
ostacolo infinito prima o dopo il Judo!

Dante, Petrarca,Wordworth, Keats,
Hume, Locke e Kirkegaard...
sfilavano come soldatini in fila
insieme a integrali, derivate, formule chimiche
da tener lontane le interrogazioni
pensando al tennis e al dolce salamino.

In cento insieme a Londra andammo
Piccadilly Circus, Buckingham Palace,
pollo e spaghetti scotti con le mele al
London's Ryan e Jesus Christ Superstar
dolci ricordi del nostro stare insieme.

Panarea

It smells like medlars and sage
almonds and parsley, lemon and roses
the air here at the Anchor House.
Well known and much beloved with
its walls in the beautiful park by the rocks
where the sea is deep blue
Beethoven’s ninth symphony fills its site
and like love itself I grow stronger
and happier and peace enchants me again.

Waiting the sinking fire with love and
love again I can see you by the door.
Lisca Bianca is wounded but stronger
eaten by the quakes, wind and rain.
Seagulls are playing with the waves
and champagne waters you can breath
while sunset colours enter the region
of memory carved by the pen of a poet.

Canto d'amore a Panarea III

Canto d’amore a Panarea III

II
Odora di capperi e gelatine di frutta
il ricordo dei giorni di scuola
quando i gabbiani volano alti nel cielo
e le sinfonie di Beethoven
impregnano l’aria di sogni
fermi sulle pagine bianche.

Ricerchiamo la rete per una telefonata
e le parole non dette di un sms
allietano la giornata
felicità e pace accompagnano il vento di chamal
e la gioia piena ci riunisce
quando densi vapori mescolano
le acque color champagne
nella calura di mezzogiorno alle Eolie
si dipana la matassa dell’amore.

Aeolian love

It smells like capers and jelly beans
the memory of schooldays in the islands
seagulls storming the sky
as Beethoven’s symphonies fill the air
and dreams drift upon white pages.

We both long for a phone call
and unspoken words brighten our day
Happiness and Peace fly with the chamal wind
and pompous Joy in dense vapours
mixes the champagne waters
in the hot noon Aeolian landscape
and spreads Love.

Spring 2008

Pineapple juice and French toast
guacamole and nacho chips on the table
fill my memories as snowflakes in the air
chill this cold winter day and it's winter yet!
The NYT writes Italians aren't happy and
I wonder how is life for Americans.
They eat fake parmesan and mozzarella
and have never had their fresh taste.
Latch key kids eating peanut butter and jelly
every day at lunch were later my college
students at UNC-Chapel Hill and they were
always drunk on weekends drinking kegs
of Budweiser and throwing water at each other.
Then came campus shootings with kids
killing kids and now it's snowing all over
and the richest duck is 60!
Italian politicians always argue
but Obama and Hillary aren't getting along
as they should fight together so that George
Walker Bush name will melt in the snow while
leaving the White House after the 08elections!

Risveglio

Spunta un’aria incerta
pungente quando m’alzo presto.
L’ora in cui tanti vicini vanno a letto.

Scivolano le sillabe
appiccicate alla spuma del mio
cappuccino freddo.

Breve TG

Ora globale diventa la fame
la CNN l’annuncia e Fox news conferma
con immagini di africani in rivolta per il mais
di madri egizie che a sé stringono i figli affamati
di nere d’America in fila alle food banks.

In Italia non s’arriva alla terza settimana
e ci s’inventa qualcosa: a Torino c’è sconto
di carne, a Messina c’è il riciclo del pane.

L’etanolo ai cereali è un bio carburante
ma a quale prezzo per l’uomo?
L’inflazione è alle stelle
mini è il dollaro, maxi è l’euro.
Bailout e deflation preoccupano Obama
e i figli di Geova fanno scorte di scatolette di tonno.

Il cibo diventa ossessione, diventa mania
Obesi in Occidente, malnutriti in Congo
fioriscono gli orti nelle terrazze a New York
aumentano i giochi con pietanze gourmet.
Jamie Olivier diventa l’idolo delle ottantenni
e mia madre cucina pietanze allo zenzero!

A Santa Lucia

Con una piuma di blue-jay
odorosa di zagare e pomelia
in questo giorno d’aprile
col cielo ovattato d’opalina
posso scrivere di adolescenti
di periferia con bagagli di violenza
che non cercano pane e sapere
ma soldi sesso e violenza.

Cerco allora la luce
nella terapia di pensieri
e le mia grida d’aiuto
raggiungono l’infinito
così che baionette risplendenti
di verità cingano il loro vestiario
trendy e semi trendy.

L’edificio fantasma si trasforma
scompaiono vipere e serpenti
e la profusione di gigli
e di rose si spande attirando
a sé manicaretti di libri
dal sapore di miele e bubble gum
annunciando l’arrivo di una
nuova stagione politica.


Aprile 2008
A G.P

Bravo a raccontare il gabbiano solitario
la vita stropicciata di una “precaria”
che riesce ad ascoltare le vibrazioni delle pietre
quando borbotta la radio e fischiano i treni.

“La mia scuola non è un pisciatoio”
grida al telefono la dirigente-preside
ed è come se lanciasse
un coltello al petto mio.
Scomode parole
che la mia penna raccoglie
con tanto gelo al cuore.

Passeranno i giorni.

Ci sarà la pioggia.

Lo scirocco e il maestrale
abbracceranno le pietre
ma non queste parole!

Settembre 2007

venerdì 10 aprile 2009

Peace upon the wind

Cut off the telephone
and grasp silence
when seagulls in white caps
come inland and shout love
to the Queen and take Eternity
as the heart asks pleasure.

A privilege yours:
you’re a spider
holding a silver ball
but be careful
and softly unwind
the yarn of pearl.

The width of life
by champagne waters
and we meet Heaven in a gaze
at a dazzling pace
and we pass the school
and we pass the shore
and we pass the setting sun
to reach Peace upon
the wind and pompous Joy.

A Carol - In Memoriam

La luna col suo disco argentato
ha tramato un assalto spietato
è esploso tra le fiamme il dolore
e il cielo ha cambiato per sempre colore
in diretta le torri crollavano
come castelli di sabbia
e innocente moriva
chi via d’uscita cercava
chi lavorava
chi camminava per strada o scendeva le scale
quando tranquilla profumate lenzuola stiravo.

Il mio cuore ha cessato di battere
e le lacrime hanno bagnato il vestito.
Il terrorismo globale è agghiacciante.

Dove sei Carol?
Con gli altri sotto le macerie!
Ed io mi rivedo con te
all’uscita del 64mo piano.
C’era il tuo ufficio di broker.
E felice mostravi le foto,
3000, del tuo viaggio in Cina.
Era il 16 Maggio 1981.

Dove sei Carol?
Sei in Cielo con gli altri
dove non c’è né tempo né spazio
né ferite e dolore ma luce d’amore.

Hanno pianto tutte le stelle
il vento ha sputato rondelle
di cenere e sangue e ora foto e lumini
neanche una bara per il funerale.

Se mi senti e se puoi
ferma le mani violente
accendi il sorriso dove c’è odio.

Cronaca di un terremoto



Il boato nel buio della notte ha ingoiato
con l’abbraccio di un’ attimo un fazzoletto di terra
sconquasso di cuori in una sfida terribile
distrutte case e palazzi chiese e ospedali
in salita il numero dei corpi senza vita
tra la puzza di gas e nubi di polveri.

Quando la luna è indifferente nel regno dei perduti
tutti danno una mano
l’emigrante e il giocatore di rugby
e si applaude ad ogni sopravvissuto.

Piange inorridito il marciapiede di Via XX Settembre
davanti alla Casa dello Studente si spera ancora per cinque ragazzi
siamo già alla nona stazione in una corsa contro il tempo
freddo fango macerie paura fame sfinimento
gelo pioggia scosse ma escono vivi Marta e Matteo.

Lungo il giorno della paura nella terra fantasma
pasti caldi bagni chimici task force di esperti
Berlusconi propone la New Town
nella tortura spasmodica non c’è tempo per rilassarsi
si percorre con la mente i ricordi di una vita
agganciati alla domanda “Come vivere?”


Teresa Lazzaro

Bishop Millicent e la sua cabriolet

Bishop Millicent e la sua cabriolet
E’ una calda mattina anche se la temperatura non è ancora primaverile ed i raggi di sole penetrando attraverso le tende svegliano Millicent e Douglas che si trovano ancora strettamente avvinghiati ed è dolcemente piacevole risvegliarsi così uniti l’uno all’altra. Lui e’ bellissimo in tutta la sua nuda virilità e mentre lei cerca di dirgli quanto lo ami, lui la stringe ancora più a sé per dirle che è la donna più speciale del mondo mentre accarezza i tratti del suo volto soddisfatto della notte davvero magica che ha lasciato un segno speciale. In quella dolce penetrazione lei chiaramente comprendeva che nel suo corpo si concepiva una nuova vita! Lei ne è certa. E’ la mattina di Pasqua e, se i conti tornano, qualche giorno prima di Natale, quando fuori ci sarà la neve e l’inverno renderà più dolce le loro serate davanti al caminetto ci sarà anche una culla.
Come ogni Pasqua è lui a preparare la colazione: waffles con fragole e panna, cappuccino con la schiuma e succo d’arancia fresca. L’odore del caffè si espande per la casa ma quando giunge alle sue narici ecco che Millicent sta male, malissimo. Douglas torna in camera e la moglie sviene tra le sue braccia. La guarda e sorridendo dice “ sei ancora più bella perché sei sicuramente incinta”. Ne sono sicuri dopo il primo sorso di juice. Il corpo del Vescovo lo rifiuta di brutto. Vomita ancora e sviene di nuovo tra le braccia di Douglas. Rinviene e lui l’abbraccia e massaggia il suo ventre. Poi va in cucina e prepara crackers con miele che obbliga il Vescovo a mangiare subito come rimedio a questo morning sickness che lui imputa all’ormone Hcg che ha alterato il suo corpo a concepimento avvenuto. Crackers e miele la fanno stare subito meglio e così lei pensa di avere recuperato un po’ di energie e decido di alzarsi. Non appena infila le pantofole sviene di nuovo tra le braccia di Douglas che comincia a preoccuparsi. Ripresi i sensi lei chiede al marito di metterle qualche cuscino dietro la schiena. Lui, ginecologo e professore al King’s Medical College, è curioso di conoscere la data delle ultime mestruazioni. Sono passati 15 giorni e così ora hanno anche la certezza entrambi che questo malessere è dovuto alla sua nuova condizione di gestante anche se dovranno aspettare per fare dei test e la visita medica. Anche se avviene raramente, Douglas Bedford sa di molte donne che hanno avuto vomito e nausea a partire da subito e che spesso si tratta di gravidanze gemellari. Millicent si assopisce mentre lui continua a preparare la colazione. In dormiveglia il vescovo si vede già col pancione ed abiti larghi. Lui nel vassoio della colazione mette uno scatolino blue: “Happy Easter, my love”. La bellissima consorte, nonché vescovo è una donna alta e slanciata, 1,72 dagli occhi verdi e penetranti e capelli lunghi castano ramato raccolti in chignon che trattiene con forcine sempre intonate agli abiti che indossa. E’ una donna molto colta, ha viaggiato molto, conosce diverse lingue ed oltre alla lettura e la musica classica, come molte donne inglesi, si rilassa ricamando a punto croce. Apre la scatolina e trova il modellino di una cabriolet! Alla sua collezione si aggiunge una cabriolet argento metallizzata. Il Vescovo mangia con appetito soprattutto le fragole e come sempre sono buone con panna e waffles. Lui mette anche della nutella sulle sue! Quando tuttavia lei avvicina alle labbra il cappuccino, ahimè anche il caffè le dà nausea! Così deve tornare a stendersi sul letto. Si addormenta per qualche ora e quando si sveglia lui è accanto a lei e raggiante le dice che è proprio più bella. Le accarezza il seno e poi il ventre dicendo al piccolo di non fare capricci. Si alzano e fanno insieme la doccia felici per il dono l’uno dell’altra. Si vestono per andare in chiesa e Douglas convince la moglie ad andare a piedi perché nelle sue “ nuove condizioni” non può farle che bene. Arrivano alla fine della Santa Messa e fanno gli auguri a Father Egan che stanotte non ha potuto concelebrare con Millicent a Westminster. Douglas Bedford chiede al Reverendo se ha tempo per delle benedizioni particolari al suo vescovo. “Delle?” . “Si,” replica Douglas “ una benedizione per la creatura che abbiamo concepito stanotte e l’altra alla macchina che la provincia anglicana londinese regala alla mia stupenda moglie per il secondo anniversario della sua ordinazione episcopale!!”. Father Egan è felice di pregare con loro e per l’incipiente maternità. Poi si avviano al parcheggio. Là trovano una bellissima cabriolet argento metallizzata con targa personalizzata ”Bishop Millicent”. Una macchina di lusso, che Millicent non avrebbe mai sognato di comprare e che il marito con tanto amore ha scelto con gli altri vescovi! Gli interni di pelle blue, il suo colore preferito e profuma di nuovo!
Con il sole splendente pensano di andare a fare un brunch a Oxford a tetto scoperto! Il Vescovo Milly, come tutti affettuosamente la chiamano, ha fatto tutti i suoi studi teologici a Oxford e anche se insegna Catechetica a Cambridge ama sempre recarsi in quella che è oltretutto la sua città natale. Per sorprendere la moglie Douglas prende nel cofano un wind stop, per ridurre la spiacevole turbolenza dell’aria e godere meglio la guida. La mattinata è stata molto eccitante e per quanto possa essere felice, Milly, non si sente di mettersi al volante. L’odore dell’incenso usato durante la messa da Padre Egan le ha dato fastidio. Tanta è la gioia. Solo ora comprende perché ieri all’improvviso il marito le avesse detto di andare a fare jogging quando invece è uscito a piedi per andare a ritirare la macchina che ha lasciato al St Andrew Center per farle la bella sorpresa.! L’istinto la spinge ad aprire il cruscotto e trova una scatola tonda e nera con all’interno un bellissimo orologio. “Non hanno badato a spese! Ma sono bastate £25,000? Non pensi che abbiano speso troppo?” “ Sono felice di aver scelto questa cabriolet perché ha anche seggiolini per bambini! L’Arcivescovo di Canterbury mi ha raccomandato di scegliere una bella autovettura che fosse anche comoda per un bambino! E mi ha raccomandato di prendere anche l’orsacchiotto scommettendo col Vescovo Carol che diverrai madre prima di lei!! Appena gli comunicheremo la tua gravidanza sarà più che felice!”
Anche il portachiavi è bellissimo, un ovale di cristallo intagliato con i quattro cerchi Audi e le iniziali M(illicent) T(hompson) B(edford). Fanno un giro in città col tetto scoperto ma poi Milly chiede a Douglas di richiuderlo perché per quanto tiepida sia la temperatura ha qualche brivido di freddo. Spento il motore, il marito prende un pacco dal cofano e glielo porge. Vi trova due dolcevita bianchi e due cardigan. “Se vuoi torniamo a casa e li indossiamo con dei pantaloni comodi.” Lei annuisce per approfittare e andare in bagno. Quante emozioni in poche ore: rimanere incinta ed essere colpita immediatamente da vomito e nausea e una macchina di lusso in regalo! Troppa gioia e non ci sono parole per descrivere lo stato d’animo del vescovo che ha sempre pensato quanto sarebbe stato bello avere un figlio! Ora anche lei sarà mamma! Suo marito è in cucina e prepara un bel thermos di red zinger tea “ così se avrai sete potrai bere” e si avviano alla nuova macchina. Ora lei nota che sul sedile posteriore c’è uno shopping bag. Non ha dimenticato nulla l’arcivescovo di Canterbury col marito! E’ un orsacchiotto bellissimo che indossa una T-shirt col logo Audi. Insomma hanno voluto inondarla di accessori Audi, e pensare che da piccola sognava solo una Mini! Certo Bishop Milllicent andrà al dipartimento con la macchina nuova!
Passano le settimane e le visite mediche confermano la gravidanza. L’attesa di un bimbo la rende felice e ogni giorno più bella anche se i fastidi del mattino sono terribili così ha dovuto spostare le ore d’insegnamento. Non riesce ad alzarsi dal letto prima delle nove e mai senza aver mangiato crackers e miele. La casa dove abitano a Tavistock Square è molto grande e fa parte di una tenuta che la famiglia di Douglas fece costruire nel 1820. La camera da letto ha una bella vista sulla piazza ma è al terzo piano, così per evitare che Millicent si affatichi decidono di dormire al piano terra.
La bella cabriolet fa l’invidia del quartiere e così come tutti i giorni in cui insegna, puntuale, il vescovo esce di casa alle 9.40. Fa molto caldo, apre lo sportello, si allaccia la cintura che a dire il vero le dà molto fastidio e mette in moto non senza la compagnia delle note di Chopin suonate magistralmente da Lang Lang. Sta per raggiungere l’incrocio con Upper Woburn Place, quando un fragoroso boato interrompe l’ascolto. Non ha il tempo di pensare che sulla sua cabriolet piovono pezzi di lamiera rossa. Frena di colpo e si spegne il motore. La paura è tanta che non riesce neanche ad aprire la borsa per prendere il telefonino e chiedere aiuto. Perde i sensi il Vescovo per svegliarsi con la sirena di ambulanze e pompieri. Il pompiere la riconosce e sapendo che è incinta chiede l’aiuto di un paramedico e chiede a un passante di suonare alla casa del vescovo, anche lei ferita dall’esplosione dell’autobus 30.
Teresa Lazzaro

La Zia Concetta:Una donna della Riviera

La zia Concetta

Quand’ero bambina, e per le strade circolavano poche macchine, la domenica si aveva l’abitudine di andare con zii e cuginetti dalla zia Concetta. I nostri conoscenti avevano cinquecento o seicento ma nella nostra famiglia c’era una millecento crema e verde oliva e una lancia flavia blu.
La zia Concetta abitava vicino al Tabacchino a Paradiso. La sua era una casa a pianterreno, umida e per nulla luminosa. Suo marito che era navigante, come molti uomini di questo borgo della riviera messinese, tornava a casa raramente. Da uno dei suoi viaggi, lo zio Domenico, nel 1926 portò in dono alla moglie che non gli aveva dato figli, un pappagallo parlante: Loreto Real. Il pappagallo fu per la zia Concetta proprio come un figlio, compagnia encomiabile per tanti e tanti anni. Loreto, che morì nel 1971, era una pappagallo verde con qualche piuma azzurra e bianca, molto bello e birichino. Era legato al trespolo con una lunga catena e quando era in casa giocava con giocattoli di legno di cui era anche molto geloso.
La zia Concetta aveva quattro sorelle. Maria che era andata a vivere in America avendo sposato un vedovo e ogni quattro o cinque anni ritornava a Messina avendo nostalgia dei parenti. Peppina, dopo il matrimonio, era andata a vivere a Genova e ad un certo punto non venne più dai parenti. Era una donna molto elegante e parlava con accento genovese. Nel 65 quando andammo a Genova a trovarla fece delle squisite troffie al pesto e la torta Pasqualina che mi consolarono della perdita delle mie scarpe a ballerina blue con le perline giacche una era stata inghiottita dalla scala mobile della Rinascente.
Nunzia, non aveva figli ma stava economicamente bene e possedeva una palazzina in via XXIV Maggio e una villetta a Montepiselli. . La sua casa era tenuta in ordine perfetto. Aveva i capelli sempre curati. Nella sala da pranzo con gli stessi angeli intarsiati della camera da letto c’era anche il pianoforte.
Domenica, detta Micia aveva avuto tanti figli e il più piccolo, Placido, sognava di fare da grande il cantante. Invece diventò cieco e a furia di fumare come un turco nazionali senza filtro ebbe le dita gialle di nicotina. Si lasciò andare e avvolti da nuvole di fumo svanirono anche i suoi sogni. Quando espropriarono le case basse di Paradiso Micia con il marito e i figli “schietti” andò a stare in Via XXIV Maggio in un appartamento della sorella ricca, proprio accanto al figlio maggiore e alla nuora. Quando le prese un ictus cominciò a camminare piano piano e strisciando e passava i pomeriggi davanti alla TV per quelle poche ore di trasmissioni che venivano dedicate ai ragazzi.
Santa abitava vicino a Piazza Castronuovo, con il figlio maggiore e la nuora. Le sorelle Micia e Santa uscivano di casa raramente e solo per andare in casa dei miei nonni materni. Dai Macrì nelle grandi occasioni c’erano sempre un centinaio di persone. Tutte le figlie portavano il loro codazzo di parenti, perché il nonno amava la compagnia e voleva tutta la famiglia riunita. Poi c’erano i rispetti del consuocerato ! Così solo per noi bambini c’era una tavolata ed il divertimento e le schermaglie non mancavano. Raffaele di Santa e Lillo di Micia avevano sposato due sorelle di mia madre.
Il fratello di zia Concetta, aveva sposato Angelina Soraci.
Nunzia aveva sposato uno dei fratelli Macrì e come la zia Concetta non ebbe figli.
Nella nostra famiglia c’era quindi un legame di parentela molto forte. E molto rispetto per la zia Nunzia, consorte del fratello più grande di nonno Angelo. Aveva una voce squillante ed una bellissima pelliccia che noi pronipoti prendevamo di nascosto per giocare alle signore quando lei era sopra a trovare la sorella, per tutti Nonna Micia.
Zia Nunzia aveva anche tantissimi gioielli e alla sua morte ognuno ereditò qualcosa. Io ereditai un ragno a spilla e la mamma un paio di orecchini coi granati.
La zia Concetta per rispetto riflesso era anche mia zia! Ed io che non avevo conosciuto i miei nonni paterni consideravo tali i nonni di tutti i miei cuginetti. Alla zia Concetta volevo proprio tanto bene. Era sempre vestita di nero e portava anche in estate scarpe di pezza perché aveva le “cipolle” ai piedi. Era incurvata dagli anni e piccola di statura. Aveva bellissimi capelli bianchi ingialliti che in gioventù erano stati biondi biondi. Li teneva raccolti in chignon con pettinasse d’avorio o tartaruga. Se usciva di casa aveva sempre un foulard nero.
La ricordo a tutti con tanto affetto e spesso vado a portare dei fiori sulla sua tomba, dove c’è un suo ritratto da giovane. Sempre in giro dai tanti nipoti, se c’era un parto in vista o qualche malattia e- da Paradiso al centro- andava sempre a piedi finché ce la fece. La sua casa, per quanto piccola e buia era tenuta come un brillante ed i pavimenti erano lucidissimi. Quando andavamo a trovarla si arrabbiava, perché correndo e giocando coi giocattoli di Loreto Real, strisciavamo il pavimento. Qualcuno dei miei cuginetti, per dispetto, scartava le caramelle e gettava la carta in qualche pianta di patata americana cresciuta nell’acqua in pesci di porcellana cinese.
Non so perché Loreto si arrabbiasse tanto quando gli toccavano la nave con le ruote. Era questo il suo giocattolo preferito forse. Era una nave con quattro marinai col berretto. C’era un filo a poppa e quando si tirava la nave si muoveva e i marinai giravano la testa e le mani. Noi ci divertivamo tanto lungo il corridoio e la zia era sempre contenta di vederci anche se le lasciavamo le strisce sul pavimento visto che non aveva pattini di pezza per tutti noi. Lei, come tutte le buone massaie, aveva un pavimento lucidato con olio di gomito che ci si poteva specchiare. Noi piccoli ci provavamo a mettere i pattini ma erano troppo grandi e li perdevamo.
Loreto era il nostro grande intrattenimento. Alcuni di noi andavano dalla zia proprio per il pappagallo. Lo stuzzicavano e lui si divertiva tantissimo e quando loro non se ne accorgevano andava a beccar loro la mano o i capelli. Non poteva sopportare l’antipatica cugina Grazia di Genova, pure lei doppia nipote di zia Concetta. Questo perché Micia e Peppina erano sorelle e con suocere!
Don Lillo, il papà di zia Concetta, aveva la barca delle pietre, come Don Placido ma aveva anche il forno vicino quelle che sono oggi dette “Case Basse”, in quella zona che fu distrutta, quando, negli anni 60, fecero la Via Larga. A case basse di sotto c’era anche un giardino con un pozzo che la zia Concetta accudiva con tanto amore e dove andava per innaffiare con quell’acqua i suoi bei fiori.
La’ nacque anche il cosiddetto Lido dei Pazzi, dove nei primi anni della mia infanzia dopo alcune ore al mare andavamo a lavarci prima di tornarcene a casa. Era d’estate una festa quotidiana. Io e la mamma prendevamo l’autobus numero 8 su Corso Cavour di fronte al Palazzo dei telefoni. Una sua sorella lo prendeva coi suoi tre figli a Piazza Antonello e l’altra a Piazza Castronuovo. Che baldoria e che festa in acqua giocando a riva e con la sabbia. Si sgranocchiava qualche pesca liscia e qualche pera, frutti freschi e succosi per avere nuove energie e toglierci di bocca il sapore di sale. All’ora di pranzo venivano a prenderci i nostri papà in macchina ma mai andavamo via da Paradiso senza aver visto la zia ed il suo amato pappagallo.
Loreto aveva già un paio d’anni quando era arrivato in Italia. Voleva molto bene alla zia e sapeva riconoscere la gente. Quando passava Don Peppino col carretto di frutta e verdura era sempre “Mamma c’è Don Pippinu da minestra” e poi Don Lorenzo, il gelataio e Santa, una delle “cugine”. Le cugine erano le figlie del fratello di Zia Concetta.
Quando si entrava dalla zia c’era sempre odore di cera. Ero sempre attirata dalla vetrina dove c’erano anche delle uova di struzzo e il servizio di rosolio. Il tavolo era rotondo e c’era sempre un bel copritavolo con un bel vassoio. Le piante di patate americane erano in vasi appesi alle pareti a forma di pesce, arancione e verde. Nella stanza da letto c’era un bel letto in ferro battuto e dipinto. La zia, cosi piccola e incurvata dormiva in quel lettone con sei materassi di lana. Negli anni della mia adolescenza insieme alle mie cugine, e finchè visse la zia, in estate dovevamo andare in quattro a sbattere i materassi. Non so quante volte lei rimase scontenta perché l’una o l’altra non avevano svolto bene il compito! Erano bellissimi quei materassi bianchi con tanti bottoncini di madreperla. D’estate si metteva la lana al sole qualche giorno e si lavavano le fodere perché il letto fosse comodo e pulito sempre. In camera da letto la zia aveva anche quel mobile con bacile e brocca di porcellana per lavare le mani. Lo guardavo estasiata e mi pareva di essere la signorina Felicita o Sibilla Alleramo quando sognavo di avere un mobile come quello. Ai temi del Liceo la zia Nunzia mi promise che avrei avuto il suo in eredità!. Credetti di toccare il cielo con le mani. Purtroppo i figli di Micia si presero tutto.
La zia Concetta mangiava poco e preferiva le ali quando c’era pollo. Quando poi finì l’epoca dei polli ruspanti lei prese a lamentarsi che le ali non avevano più gusto. Aiutava tutti, correndo a destra e a manca e aiutò una famiglia del vicinato. Quei ragazzini la chiamarono nonna facendola immensamente felice.
La casa di zia Concetta disabitata per anni, e dichiarata poi inabitabile è ora in fase di ristrutturazione. Legata da un profondo affetto a volte mi pare di sentire sul marciapiede la sua voce che mi chiama. Quando tornammo a vivere per sempre a Paradiso la vidi più spesso e ogni giorno, se non veniva lei andavo a trovarla. Seduta dietro la grande porta marrone senza persiane mi aspettava ed era contenta anche se le portavo solo un po’ di frutta.

'I babbuni:racconto in dialetto con prefazione e postfazione in Italiano



‘I babbuni

Prefazione

Il 15 Agosto 1979 partiì via Londra per Chapel Hill, un’amena e atipica cittadina del Sud Statunitense per conseguire il tanto ambito e sognato Ph.D alla University of North Carolina, la più antica università di stato e tra le otto più prestigiose università americane. Sebbene fossi borsista ed assistente al dipartimento di Lingue Romanze alla fine del primo anno soffrii i crampi della fame per ben sette giorni perché il mio ultimo assegno l’avrebbero depositato dopo che fossi rientrata in Italia per le vacanze. Quando poi arrivai ad Athens, il 17 Settembre 1983 per coprire la Seconda cattedra d’Italianistica al Dipartimento di Lingue Romanze della University of Georgia, non mi sarei nemmeno lontanamente immaginata che in quella parte di profondo Sud avrei passato un periodo che avrebbe rafforzato il mio carattere. Da allora in poi su barboni ed emarginati ho scritto diverse poesie. La prima, nelle pagine bianche della mia copia de Il fu Mattia Pascal mentre aspettavo l’autobus per recarmi all’università, dove insegnavo un corso sull’evoluzione e la tecnica del romanzo italiano, ad alunni che dovevano conseguire un Master, tutti più grandi di me per età. L’anno dopo avrei perso il libro prestato ad una studentessa messicana della San Diego State University. Altre le avrei scritte in tempi diversi nel Massachusetts in un popolarissimo ritrovo di Northampton. Allo stesso tavolino da cui potevo osservare gli emarginati, in attesa di consumare i miei pasti, scrivevo versi sui tovaglioli di carta, finiti poi chissà dove. Resta tuttavia indelebile il ricordo della sofferenza incontrata e vissuta, la mia poesia Who cares? E

Sentire leggero il fardello degli altri
nel momento in cui a portarlo siamo noi:
amore, affetto, tanta soddisfazione.
Perché per molti il fardello è pesante?
Un sorriso, una parola
la carica energica che porta lassù.
Sorridi fratello
la vita è una scala ripida
ma guarda in alto
sorridendo camminerai sulle nuvole.

A vui, cari babbuini, vi vogghiu didicari quattro paruleddi: prima mi nni fazzu na para pi mè matri e pi mé patri picchì iddi ognignonnu hannu cu cu parrai da matina a sira. Vui inveci ciunchi, fitusi, chini i pitocchi, ‘ntrizziti e scunsulati non aviti a nuddu chi vi parra e chi v’ascuta, anchi si pi strata vaddati cu cori chi vi cianci tutti chiddi chi pàssunu e chi vi ièttanu occhiati chi pàrunu lignati e chi vi scancarìunu tutti. Vui, cari babbuini, n’aviti passati tanti! Non aviti travagghiu, aviti pi casa ggiunnali e scatuli ‘i cattuni e cetti voti, quannu vi llammichìa u cori, ciccati in menzu a munnizza si c’è nu mosssu ‘i pani e chiddu chi truvati, puru se schittu, vu manciati comu si fussi lu pastu di nu dignitari, puru si vi và i traversu.
Na sira, quann’era in califonnia e spittava l’autubussu- e mi trimàunu i babbazzali- sduvacata ntà panchina da fimmata, vitti a unu ‘i vui chi pigghiava nto munnizzaru nu biccheri cu ghiacciu e na ‘nticchia ‘i Coca-cola. Nta ddu minutu mi ‘ntisi un chiovu trapassari u cori: chamai dù ‘nnucenti, strugghia u paccu da spisa ch’avia cattatu e ci desi nu mossu i sghizzeru. Non era pacciu, né drugatu: era sulu niru, ‘naffabeta e ncurvateddu pi quantu manciari avìa ciccatu sempi nziccatu tra munnizza e mai avìa vistu cuntintizza picchì cci ù liggia ntà l’occhi.
Non pozzu diri si di babbuini nni vitti chiussai nta Gioggia o all’autri patti, ma chissi eranu niri niri e non avìunu mancu scappi e pedi. Annannu e vinennu da casa all’univessità, vulàru novi misi, e iò ravvisu chi era l’unica iancha nta dd’autubussu e u sciaffer era chiù niru ‘i tutti. Parràunu nu ‘ngrisi chi non potti mai capiri picchi u ‘ngrisi, i ianchi chi non u sapìunu parrari, non cci u sàppuru ‘nsignari a st’animi nnuccenti ch’avìunu vinutu ‘i ll’Africa e parràunu l’Ibu e tant’àutri lingui. Dd’ingrisi non sapìunu mancu scriviri bonu, comu esti dimustratu da l’antichi documenti chi mannaunu in Inghitterra.
Non nni capìumu, ma quannu putìa ci dava li mé robbi e na picca ‘i manciari. U fici puru quannu na poviredda mi rubbau n’anneddu anticu cu smeraddu. Cci desi tanti cosi e na valigia, du’ cuscini, na ramazza e na caiella. L’aiutava picchì nto paisi chiù riccu du munnu iddi càmpanu ntà povittà chiù nira nte Bronxs, nto centru i Novaiocchi, a ccicagu, nta ll’Alabama e ntà Florida. Tutti i scànsanu e i quattèri aunni girìanu sunnu tutti maffamati. Quannu si passa pi cetti strati, u cori nchìana a ‘ula, si vidi nu squallori, tuttu attonnu girìa u scantu e a motti è arretu a cantunèra. A violenza e a mbriacatoria spissu ci ràppunu i canni ‘ncoddu a st’animuzzi ‘i Ddiu. I fimmini si chiamunu “bagladies” picchì giriànu cu na para ‘i pacchi ‘i prastica misi nta nu carrellu ‘i supimmicatu. Nto nvennu, quannu a timpiratura scinni suttazeru cèccanu riparu dù friddu nte stazioni ‘i ll’autubussu, ma i vàddia fannu i ritati e iddi vannu a finiri ‘nsemi e latriceddi. Ognitanti cci nn’è unu chi mori senza aviri mai sugnatu picchì u so tettu esti u cielu stiddatu e faci tantu friddu chi li dulura ntra ll’ossa rùmpunu u so cori in quattro picchì i macciapedi, i pavimenti di stazioni e ddi panchini aunni ciccau rifùggiu non ci pimmìsiru ‘i ripusari a carina.
A vui, cari babbuini, vi pinsai quannu mi nni stava ritunnannu nto me’ paisi ed eppi a disiddirari nu lettu e nu gghiuttuni d’acqua picchì nuddu mi desi na manu d’aiutu tra chiddi chi canuscìa e ch’avìa aiutatu cu tantu amuri. E picciò, all’uttimu minutu, vosi salutari sulu a nu babbuini. Avìa sintutu parrari d’iddu nta na trasmissioni radiu, nta All things considered, propriu u novi mazzu, lu jonnu chi mi rumpìa u brazzu. Cu iddu avìanu parratu cu tanti comprimenti picchì tutti i dumìnichi arricògghi ddi patti du New York Times chi i genti ièttanu senza mancu lèggiri e si vinni pi venticincu cintesimi nto macciapedi ‘i Zabar, aunni vannu mi si ccàttanu fummaggi, pani e tanti schisitizzi l’ebbrei da West Side chi sunnu tantu ricchi e chi, vulennu sparagnari u prezzu ‘nteru du ggiunnali, su cattanu unn’iddu. Nta dda cantunera c’è nu ciaurìnu tantu inbitanti, ma iddu ddà intra non ci trasìu mai. Dopu a notti chiù ricuddanti dà me vita, c’avia passato chiusa ntà machina o friddu e cu scantu nta strada privata di n’amica china ‘i pirilli chi m’avìa imbitatu e aunni nuddu m’apriù a potta quannu ci sunai, prima i pattiri, vosi salutari propriu a iddu.
Lassai a machina in menzu a strata, mi duliunu l’ossa, facìa fetu ‘i sudura, ma scinnìa e , dopu chi ntrasìa unni Zabar mi ci ccattu nu menzuradu gilatu, u ciccai. Era ddà e, propriu comu avìa dittu u giunnalista llitratu, vinnìa a patti di scialasi, chidda da scialacquaria, chidda di llianamenti, chidda di pririlli, chidda da sputrata, chidda di politicanti e chidda du pagghiaru. Avìa siti e si priò chi ci desi lu gilatu e si scuddaù puru a so cruci quannu seppi ch’avìa vinutu unni Zabar du Massachusetts apposta pi vidillu. Mi baciau a manu picchì u fici sentiri ‘mputtanti. Mi dummannau picchì annai mu trovu; mi dissi “grazi” picchi ci fici passari a siti e, mentri nui parràumu, dù ebbrei nni vaddàunu e ridìanu.
A stu babbuini amicu mei ci vogghiu mannari tanti binidizioni cu tuttu u cori. A iddu e a chiddi comu a iddu picchì ciancìù cummossu quannu ci dissi chi, s’avissi avutu nu travagghiu, ci avrìa datu chiussài quannu ci desi puru i pirilli pi ddi tri patti du ggiunnali chi mi vosi ccattari. Vosi sapiri picchì u stava trattannu accossì bonu e iò, ciancennu, ci rispunnìa accussì: “Vinni a merica e pi n’avvintura vularunu ott’anni di tormenti e duluri pi nsignari all’univessitari miricani la me lingua e li me tradizioni finu a quannu li leggi dill’immigrazioni du presidenti Reagan mi livaru u travagghiu, picchì mi doli u brazzu chi m’aggiustaru cu n’opirazioni e picchì ca me famigghia luntana sugnu sula comu a ttia nta na terra stranera chi mi rrubau l’anni chiù beddi di la vita mei.” Iddu isò i mani o celu e prigò Diu a buci auta, chi mi facìa sanari e puru travagghiari.
A stu babbuni pensu stasira e tutti i notti quannu mi ruspigghìu pi sentiri a BBC picchì a Missina non mi pozzu ccattari lu New Yok Times. Esti vecchiu vecchiu stu babbuni amicu mei e iò nò sacciu se ritonnu a merica, ma iò ci prumittìa chi, si ritonnu, vàiu mu trovu spirannu di truvarlu in menzu a li clienti ‘i Zabar e nò ddà fora a vìnniri i patti du ggiunnali. A stu bonu cristianu vogghiu fari tanti comprimenti ‘i filicità, ma soprattutto vurrìa chi dopu tanta sputtuna si pozza sugnari nautra parrata cu ggiunnalista llitratu pi scuddàssi chidda chi ci ricodda quantu esti poveru e chi non avi nu pagghiaru né occhi pi cianciri picchì cci ll’havia a mmèttiri tutta pì campari na simana chi vinti dollari chi poti arricògghiri a duminica. A ttia, caru babbuini, ti passo una manu nte capiddi e sta carizza fazzu finta chi esti na cupetta chi ti ripara du friddu chi nta sti ionna è accussì gilatu chi ogni tò capiddu iancu pari nu chiovu aggintatu. Si vecchiu, sì sdintatu, i tò mani ianchi sunnu chiù niri di l’inchiostru di ggiunnali, u tò fantali esti niru niru, ma nta stu minutu pari na scuttura ‘i ghiacciu e nté tò occhi non c’è umbra ‘i rancori pi ddi scillirati chi ntràsunu nta dda putìa e ti tirunu lignati.
Postfazione
Il dialetto è una forma espressiva comune soltanto a pochi- si dice da più parti- ma secondo le moderne teorie della glottodidattica bisogna sviluppare al massimo le capacità espressive attraverso la pratica di più sistemi linguistici, tutti ugualmente degni. Parlando più di un idioma, sono consapevole di tutti quei problemi inerenti alla traduzione e so bene quanto sia difficile tradurre se stessi, perché se scrivo in inglese, penso in quella lingua e nel suo framework, un framework diverso e più semplice di quello italiano. Nell’atto della traduzione, entrano in gioco altri elementi pertinenti ad un altro framework e quindi non si può più parlare di traduzione ma di riscrittura di un testo. Questo racconto è intraducibile in quanto solo il dialetto racchiude il lessico del cuore. Non avrei potuto scriverlo né in italiano né in inglese. Ciò che provai è ben espresso da queste poche parole uscite dall’inchiostro rosso di un cuore lacerato. L’intenzione era quella di scrivere dei versi, ma essendo ormai abituata a leggere frasi perfettamente divise dal meccanismo tecnologico del mio aggeggio, mi sono lasciata trascinare da un comando di controllo ed ecco uscire un unico flusso. Ho voluto sperimentare il dialetto per dar corpo ad un qualcosa che ad esso non è pertinente: uno stralcio di vita americana. Il dialetto può dunque arricchirsi e rinnovarsi grazie a questa vicenda vissuta. Una sola storpiatura: al povero barbone di San Diego diedi, non un pezzo di svizzero, ma una mozzarella comprata al quartiere italiano della città californiana. La fermata era quella del MacDonald, dove aspettavo sempre la coincidenza per tornare a casa ed il fatto accadde nel febbraio 1985.
L’incontro col barbone di Zabar avvenne la penultima domenica dell’Ottobre 1987 ed erano le tre del pomeriggio. Avevo da poco subito un’operazione al braccio destro- (l’ulna mi era stata sostituita con una protesi)- e con la mia vecchia Vega partìì da Sunderland per andare a trascorrere qualche giorno da Diana e Gregg Richardson nel New Jersey. Ad Amhesrt la mia amica Gabriella Mulcahy mi diede due mele ed un pezzetto di dolce da sgranocchiare durante il viaggio. Più tardi, per il traffico cittadino, quando arrivai a Springfield dalla mia ex Assistente, dovetti affrontare con orrore agghiacciante la pulitura dei miei libri, prima di sigillare delle nuove scatole che qualche giorno più tardi sarebbero andate in un deposito insieme a tutti i miei otto anni di esperienza americana… Dopo tante ore di fatica estenuante, sentendomi mancare le forze, telefonai ad una vecchia amica che abitava a Torrington nel Connecticut e dissi alla madre che dovendo tornare in Italia avrei tanto voluto salutare Marilù. La signora Ficca mi invitò a trascorrere qualche giorno a casa loro e mi diede anche le indicazioni per raggiungere la casa pregandomi di telefonare appena arrivata in paese in modo che mi avrebbe incontrata.
Era la prima volta che guidavo dall’operazione subita l’8 Ottobre ed ingessatura e punti mi erano stati tolti solo il giorno precedente. Sbagliai strada ed il tragitto sembrava non finire mai. Trovare un telefono fu un impresa. Alla fine del paese trovai un ristorante. Lasciai la macchina col motore acceso ed entrai in quello che era un ritrovo di lusso. Sudata, stanca ed esausta dovetti sembrare una barbona agli occhi degli eleganti proprietari che mi diedero il dime per la telefonata. Al telefono rispose il padre dell’amica e quella sua frase risuona indelebile ancora oggi alle mie orecchie: “Marilù is not home. My wife is out, leave me the number and she will call. I don’t know that we are expecting guests.” Parcheggiai la macchina ma rientrando nel ristorante albergo non mi portai né soldi né giacca. Il ristorante stava per chiudere e quindi non potetti neanche cenare. Le poche camere erano inoltre tutte occupate da ospiti stagionali, venuti a godersi il fogliame d’autunno. Alla chiusura del locale, i proprietari, che ben conoscevano al famiglia della mia amica, mi dissero come raggiungere la casa. Arrivai in pochi minuti e, vedendo una Cadillac ferma, suonai il campanello. Sei cani fecero un gran baccano ma nessuno aprì la porta. Il doppio garage era aperto e quasi tutte le luci di casa erano accese. Parcheggiai sotto il lampione aspettando il rientro della mia amica che forse ara ad un party di pre-Halloween. Si fece mezzanotte, l’una,… la temperatura si abbassò, tanto che dovetti scendere dalla macchina e prendere da una valigia quanti indumenti potessero darmi un po’ di calore. Sulla stampante c’era il mio computer, freddo e duro. Arrotolai una giacca e cercai di poggiarvi il braccio che mi doleva. Avevo sete e dovevo prendermi delle medicine. Alle tre arrivò anche un temporale con lampi e tuoni e da qualche parte entrò anche dell’acqua. Alle prime luci dell’alba decisi di andarmene. Imboccai l’autostrada ed all’uscita 15 trovai un MacDonald. Entrai per lavarmi e riscaldarmi. Feci colazione e ripresi il viaggio. Ancora pochi chilometri ed avrei raggiunto lo Stato di new York. ‘La mia macchina è un macinino e per questo mi suonano’ pensai. Invece si era aperta una delle portiere in cui nella notte era rimasta incastrata la cinghia di una delle valigie e per poco non persi valigia e stampante! Qualche chilometro dopo e si accese una spia. Avevo decisamente bisogno d’aiuto. Una ragazza si fermò e la pregai di chiamare il soccorso AAA ma lei rispose che era di fretta. Poi fu il turno di un tale. Si fermò ma non aveva antifreeze ed invece di aiutarmi sbatté il cofano sulla mia testa. Mi avviai a folle all’uscita e corsi alla Gulf. Feci il pieno di benzina e di antifreeze. Feci controllare l’olio rassicurandomi di poter raggiungere il New Jersey. Invece il termostato non funzionava e così a malapena arrivai all’uscita successiva. Ero nello Stato di New York e ricordavo che giù in fondo c’era anche un meccanico alla stazione di servizio. Era domenica e lui c’era ma fu inutile pregarlo di sostituire il termostato. Lui, italo-americano era stato sempre preso per i fondelli e l’unico aiuto che poteva darmi era noleggiarmi per $250 una Lincoln da riportare in 48 ore. Per evitare di farmi 800 miglia ero disposta a pagare qualunque cifra per la sostituzione del termostato. Piansi lacrime amare perché nelle ultime settimane la mia croce era stata troppo pesante. Al diavolo la reclame di non uscire di casa senza la Visa o l’American Express, al diavolo la AAA che avevo cercato di avvisare tramite la polizia!
L’incontro col barbone di Zabar fu dunque un’esperienza indelebile: porgendogli una mano era come consolare me stessa per quanto mi era accaduto. E quando di notte scricchiola il mio letto ripenso a quella notte nella Litchfield Avenue di Torrington e ai barboni che non possono far riposare le ossa in un letto. Felice d’aver incontrato il barbone di Zabar spero che possa sognare e vivere presto sotto un tetto. Dell’amica nessuna notizia.

Teresa Lazzaro
26 Gennaio 1988